Chi non ha sentito parlare almeno una volta del biblico esodo dall’Egitto e del leggendario attraversamento del Mar Rosso per raggiungere l’agognata terra promessa! …voi vi domanderete, ma che c’entra tutto questo con l’articolo che ci accingiamo a leggere?
Ebbene ho riscontrato delle inquietanti similitudini con quanto sta accadendo nel nostro Paese; file bibliche di ragazzi per accedere all’edificio che ospita il maxi-concorsone, per l’appunto il “Mar Rosso”, con la speranza di raggiungere la meta più ambita…il posto di lavoro!
Mi riferisco ai recenti concorsi da infermiere della Toscana e della Puglia che sono stati addirittura paragonati a “mega concerti” con misure logistiche e di sicurezza straordinarie come per tutti i grandi eventi; 16.000 i partecipanti per pochissimi posti di lavoro con la speranza, per i candidati giudicati idonei, di venire inseriti in una graduatoria regionale dalla quale verrà attinto il personale infermieristico per le “future” esigenze regionali… altro tempo da attendere!
Fino a qualche anno fa l’infermiere era considerata la “professione del futuro”, migliaia di giovani spinti dalla speranza che questo mestiere fosse un’importante fonte di occupazione e anche, bisogna dire, con spirito di abnegazione ed altruismo, hanno intrapreso gli studi per ottenere la laurea triennale in Scienze infermieristiche (facoltà a numero chiuso).
Cosa è invece accaduto? Il parziale blocco del turn-over con il progressivo invecchiamento della forza lavoro in questo settore, dove le condizioni in cui viene esercitata la professione non sono di sicuro “facili”, una politica non certamente lungimirante e la cronica carenza di risorse economiche, non hanno consentito il ricambio generazionale “promesso”.
Migliaia di giovani laureati alla ricerca di un posto che non c’è, in fila davanti a palazzetti dello sport per rispondere a dei test con domande spesso non attinenti alle materie studiate, eppure chi di noi purtroppo non è incappato volente o nolente nell’annosa carenza di personale negli ospedali, nelle piaghe della burocrazia sanitaria spesso priva di figure professionali magari dotate di competenze digitali in grado di gestire le nuove tecnologie?
In un’analisi effettuata dalla Federazione dell’Ipasvi (Federazione nazionale Collegi Infermieri) in base ai dati presenti nel conto annuale della Ragioneria Generale dello Stato sulla forza lavoro infermieristica nelle Regioni italiane negli anni 2009- 2014 è stata individuata una carenza di circa 47.000 unità di personale, con una percentuale di infermieri over 50 che pesa circa il 69% sulla forza lavoro potenzialmente operativa.
Il dato è a dir poco drammatico, eppure questi professionisti, malgrado una carenza di personale di queste dimensioni, non trovano un’occupazione stabile nel nostro paese e sono spesso costretti a cercare opportunità lavorative all’estero, soprattutto nel Regno Unito dove i nostri neolaureati, molto apprezzati per le loro competenze, sono assunti attraverso la presentazione di titoli professionali e magari un colloquio via Skype; recentemente è stato introdotto per l’iscrizione (obbligatoria) al Registro nazionale britannico degli infermieri (Nursing and Midwifery Council) il requisito della competenza linguistica comprovato attraverso la certificazione a livello C1 dell’Ielts (International English Language Testing System), oppure lo svolgimento di un corso con almeno il 75% di interazione clinica in inglese, oppure l’aver lavorato per due anni in un paese anglofono che prevede la valutazione linguistica per la registrazione all’ordine.
Le opportunità professionali che questo sistema sanitario offre, a detta di molti dei nostri infermieri che vi lavorano, sono estremamente allentanti, la centralità della valutazione del merito sul quale è basato consente di cambiare e di crescere con possibilità di ottenere bonus per frequentare corsi di aggiornamento che in Italia invece si devono pagare.
Una recente pubblicazione dell’OCSE sulla forza lavoro del settore sanitario dei Paesi membri, oltre ad esaminare le politiche adottate dagli stessi relativamente ai fabbisogni di operatori sanitari, ha delineato un piano per promuovere in quest’ambito il “giusto lavoro, le giuste competenze, i luoghi giusti”; i Paesi dell’OCSE devono cioè premurarsi di formare un numero sufficiente di personale capace di sfruttare al meglio le proprie competenze e di collaborare attivamente con gli altri professionisti del settore, assicurandosi che gli operatori sanitari acquisiscano e mantengano, seguendo regolarmente corsi di aggiornamento, le competenze adeguate e necessarie per offrire ai malati prestazioni professionali di alta qualità con un approccio “di squadra” orientato esclusivamente ai bisogni del paziente; inoltre in questi Paesi deve essere garantito a tutti un adeguato accesso all’assistenza medica attraverso una corretta distribuzione di personale e servizi e l’impiego di tecnologie innovative.
Cosa impedisce all’Italia di adeguarsi a questi inconfutabili concetti e prendere esempio da altri Paesi virtuosi? Da dove ripartire per evitare l’iniziale paragone biblico?…magari attraverso un’attenta e puntuale pianificazione della forza lavoro in questo settore, anche a livello europeo, iniziando soprattutto dagli studi universitari (sforzo che comunque si sta tentando di fare nell’ambito della Joint Action europea “Health Workforce Planning and Forecasting” i cui risultati dovrebbero contribuire a fornire i reali fabbisogni e le necessarie competenze del settore), …magari investendo sulla formazione delle competenze dei nostri operatori, …magari utilizzando modalità di reclutamento diverse che partendo proprio dalla formazione di un numero di personale altamente qualificato e specializzato adeguato ai fabbisogni consenta il superamento dell’attuale modello concorsuale, basato spesso su favoritismi e corruzione, …magari favorendo l’utilizzo delle nuove le tecnologie in grado di garantire un accesso più efficace ed efficiente ai servizi sanitari, …magari incentivando e valorizzando le competenze, le professionalità ed il merito del personale, …MAGARI…!