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Cittadini Attivi. L’Italia cambia se ci si informa e si esce dal pregiudizio

Complice forse un perdurante relax residuo delle vacanze estive, nonostante sia autunno inoltrato mi ritrovo ancora a pensare positivo. Anche se ci si sente un po’ in colpa nel nostro Paese a pensare positivo, quasi si temesse di passare per gonzi. Paradossalmente, il punto potrebbe essere proprio questo: da noi il pensiero negativo sembra essere più protettivo del pensiero positivo, come se avessimo completamente aderito al vecchio adagio che recita: “A pensar male si fa peccato ma si indovina”. Ma è proprio vero che ci si guadagna?

Questa estate mi è capitato tra le mani il libro di Nando Pagnoncelli, politologo e sondaggista italiano, presidente di IPSOS Italia, dal titolo: “Dare i numeri. Le percezioni sbagliate sulla realtà sociale”. L’IPSOS, un’agenzia di ricerche di mercato globale, ha condotto un sondaggio internazionale per due anni consecutivi, dal 2014 al 2015, prima in 14 e poi in 33 Paesi, tra cui l’Italia. L’indagine è stata incentrata sulle percezioni che i cittadini hanno riguardo aspetti sociali, demografici ed economici della vita del proprio Paese. I risultati, a mio avviso, fanno riflettere: la distanza riscontrata in Italia tra la percezione e la realtà è enorme, una discrepanza tale da farci guadagnare il discutibile primo posto in un “indice di ignoranza”, come Paese peggio, o se preferite, meno informato.

A questo punto, lungi da me il volere ricadere nell’italica abitudine di spararci addosso da soli. Non intendo infatti evidenziare che abbiamo guadagnato la medaglia d’oro, intendo invece esaminare, grazie all’aiuto fornitomi da Pagnoncelli, come mai questo avviene, cosa comporta, e soprattutto, cosa in positivo possiamo fare per invertire questa tendenza.

Riprendendo alcuni degli argomenti esaminati: nel 2015, nel pieno della crisi greca, con il rischio di default e di referendum nei confronti delle misure imposte dall’Europa, i nostri connazionali pensavano che non ci fossero differenze tra noi e la Grecia, e quello che era capitato lì, sarebbe ben presto successo anche da noi. Molti italiani, cioè, ignorano completamente che il PIL dell’intera Grecia corrisponde al PIL della sola nostra Lombardia: il 71% degli italiani infatti non sa che in Italia abbiamo la presenza di oltre quattro milioni di imprese, le quali ci classificano al secondo posto in Europa come Paese manifatturiero, dietro solo alla Germania. E inoltre – se la vogliamo dire tutta – il 17% degli italiani non crede che questo sia vero. Un altro esempio eclatante riguarda la politica stessa: questa “gode” di un tale discredito, per cui i cittadini sono convinti che intervenendo sui costi della politica, si possano risolvere i problemi economici che ci affliggono: per gli italiani la riduzione del numero dei parlamentari comporterebbe più risparmi per le finanze pubbliche di altri provvedimenti strutturali, come ad esempio l’abolizione delle province, o la vendita di parte dei beni demaniali.

Ed ancora, a titolo d’esempio: la percezione della percentuale di immigrati presenti sul nostro territorio? Noi italiani crediamo che sia il 30%. Il dato reale? Il 7%. La percezione del numero dei musulmani presenti in Italia? Il 20%. Il dato reale: il 4%. Della percentuale di disoccupati? Il 49%. Il dato reale: il 12%.

Certamente le problematiche del Paese in cui si vive influiscono pesantemente sulla vita di ciascuno, ma sembra che gli italiani abbiano una specifica tendenza ad ingigantirle, estremizzandone e drammatizzandone la portata, gli effetti e le origini. Cosa ci spinge verso questo scotoma tra dati reali e percezioni? Quali sono le cause di tale modalità di pensiero?

Sembra che le cause possano essere ricercate:

  1. nel basso livello di istruzione che ancora affligge l’Italia, dove il 57% della popolazione si limita alla scuola elementare e media o non possiede un titolo di studio;
  2. nella poca dimestichezza con i numeri e le percentuali, per cui le persone sono disorientate e quindi tendono a generalizzare, sovrastimare o sottostimare i dati, finendo per accrescere a dismisura o affievolire la portata reale dei fenomeni.
  3. un effetto di emotional innumeracy -suggerisce ancora Pagnoncelli, – traducibile come “ignoranza numerica emotiva”, un fenomeno indicato dagli psicologi sociali per il quale tendiamo a sovrastimare quanto ritenuto minaccioso o pericoloso. Le persone cioè, in buona fede, trasmettono un messaggio di preoccupazione e di ansia.
  4. nelle modalità di informazione di cui ci si avvale, in cui prevale la tendenza ad utilizzare sistemi rapidi, facili e superficiali, prevalentemente telegiornali, titoli dei giornali o notiziari radio.

Oltre a queste cause, a mio avviso credo sia da considerare anche un altro fenomeno che accade, inducendo ad un tipico errore che interferisce pesantemente con la valutazione della realtà: il cosiddetto effetto alone. Questo opera come un vero e proprio pregiudizio, portandoci ad estendere ad altre caratteristiche, lo stesso giudizio – positivo o negativo – che attribuiamo alla caratteristica centrale.  Ad esempio, se valutiamo positivamente una caratteristica di una persona, prendiamo il suo aspetto, saremo portati ad estendere questa valutazione positiva anche ad altri tratti che riguardano l’individuo in questione, tipo l’affidabilità e la socievolezza. Saremo pertanto portati ad esprimere un giudizio globale più positivo su quella persona. Lo stesso meccanismo si attiva nel caso di una valutazione negativa. Consideriamo che le valutazioni le esprimiamo continuamente, su qualsiasi aspetto della vita che ci circonda, dal prodotto che scegliamo al supermercato, alla vita nel nostro Paese. Altra caratteristica dell’effetto alone, purtroppo, è che pur se siamo in grado di comprenderne gli effetti, per lo più non ci rendiamo conto di subirli. E così il nostro inconsapevole bias di valutazione, apre degli orizzonti infiniti. Lo sanno bene le agenzie di marketing ed i politici.

Questo modo di funzionamento impatta notevolmente sulla nostra vita. Se da un lato è utile per abbreviare i tempi elaborazione, di valutazione, e quindi a semplificarci la vita, dall’altro lato, spingendoci ad andare in automatico sulle nostre valutazioni ed abitudini, ci muove verso l’utilizzo di interpretazioni alterate e di pregiudizi. In un clima di paura ed intolleranza crescente, siamo spinti perciò ad andare alla ricerca di conferme dei nostri giudizi – pregiudizi – più che ad informarci e confrontarci, in un modo che contribuisce a formare e mantenere delle credenze limitanti.

È vero che il nostro Paese offre molte occasioni per fare il pubblico lamento, ma è anche vero che di queste non ne perdiamo nemmeno una. Secondo un copione culturale ormai, per il quale andiamo a celebrare ed esaltare quanto più è possibile tutto quello che ci sembra non vada nel verso auspicabile. Quasi ci aiutasse a sentirci uniti, accomunati agli altri, in sintonia: un grande passatempo, al pari della conversazione sulle stagioni.

E allora, come uscire da questa impasse? Ecco, quello che propongo, è di prestare maggiore attenzione ogni volta che esprimiamo una valutazione, un giudizio. O un pregiudizio. Ricentrandoci. Partendo da noi stessi. Prendendoci un po’ più di spazio per informarci, analizzare, confrontare. È vero che richiede più tempo, e che forse potrebbe portarci ad esprimere valutazioni leggermente meno popolari. Ma è anche vero che ci darebbe un po’ più di respiro, di soddisfazione, forse saremmo meno spaventati da quello che accade intorno a noi. Potremmo uscire dal ruolo di vittime, dalla nostra passività e riconquistare il nostro ruolo di attori.

Altra pratica che mi sento di avanzare, è di abituarci ad andare a cercare, per ogni “pacchetto” di valutazioni negative che esprimiamo, almeno una caratteristica positiva. Mi rendo conto che è difficile, soprattutto nei momenti in cui pare che non ci sia nulla che vada bene, sembra quasi una pratica impossibile. Eppure, assicuro, è solo questione di allenamento: da quell’unico giudizio positivo che esprimeremo, avremmo la possibilità di esercitarci e di potere passare in breve tempo ad esprimere una grande quantità di giudizi positivi. Potremmo guadagnarci un grande senso di rappacificazione, con noi stessi e con il mondo intorno. Un grande senso di vita.

Un paio di mesi fa, a Parigi, nel McDonald di Champs-Élysées, in un momento di media affluenza, mi è capitato di attendere 30 minuti per ritirare il pasto già ordinato, in barba ad un’organizzazione che del fast ha fatto la sua ragione d’esistere. Il mio pensiero è stato: “In Italia non sarebbe successo!”. Un’analisi frettolosa? Un ribaltamento di schemi? Italiani all’estero che solo in suolo straniero riescono a ricompattarsi nel senso di appartenenza? E perché no a tutto questo. Tuttavia un altro dubbio mi assale: e se fosse già in atto un cambiamento, una modernizzazione del nostro Paese, un adeguamento ed un’apertura nell’incremento di standard internazionali, e noi, così occupati a pensar male, non ce ne stessimo rendendo conto?

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