C’era una volta…
«Un re!», diranno subito i nostri amati lettori.
Invece no, avete sbagliato, c’era una volta un famoso ateneo e due personaggi «pinocchieschi». Siamo certi vi stiate chiedendo chi fossero, quali fossero i loro nomi e, soprattutto, cosa ci azzecchino con la nostra rubrica. Bè, abbiate la compiacenza di seguire il filo del nostro discorso e tutto apparirà chiaro.
«Che nome gli metterò – disse fra sé e sé – Lo voglio chiamar Pinocchio. Questo nome gli porterà fortuna. Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi, e tutti se la passavano bene. Il più ricco di loro chiedeva l’elemosina» (Le avventure di Pinocchio – Carlo Collodi).
Nell’estate 1984, due Pinocchietti neodiplomati, imberbi e di buone speranze si accingevano a trascorrere la loro prima vacanza fuori dal guscio domestico. Per l’occasione, scelsero una classica e blasonata meta da «acchiappo»: Rimini. Alla partenza, uno recava in tasca 150.000 lire, l’altro 100.000, ma potevano almeno contare sul fatto che il viaggio era stato pagato anticipatamente. L’obiettivo era resistere il più possibile fuori casa e «rimorchiare» a gogo. Ne sortì un’epopea, che se l’avessero pubblicata, Collodi sarebbe probabilmente risorto per complimentarsi. Se starsene seduti 11 ore in un «diretto» lento e sovraffollato, che a dispetto del nome sembrava un treno senza meta, fu la premessa iniziale, la loro «ricca povertà» fu la logica prosecuzione della vacanza, costringendoli ad un alloggio ai limiti della decenza e ad un semi-digiuno no-stop. Ristoranti, zero. Locali serali, zero. Attività, zero. L’accesso al mare era gratuito, ma i servizi erano tabù, si permisero pertanto il solo lusso di ustionarsi, perché del resto non avevano soldi neanche per una crema solare. E le ragazze? Chissà, forse Rimini ne era stracolma, ma loro non ne ebbero mai certezza; presi com’erano dalla strenua lotta per la sopravvivenza.
Ricordando quella vacanza, negli anni avvenire, avrebbero raccontato boccaccesche avventure con avvenenti ragazze. In realtà, invece, i due Pinocchietti tornarono a casa delusi, frustrati e stanchi, seppur felici di aver approcciato la vita a modo loro. Questi i presupposti con i quali i nostri eroi si preparavano ad accedere al mondo universitario. Di lì a poco sarebbe difatti iniziato il nuovo anno accademico; motivo del presente articolo.
Difatti, se abbiamo deciso di scrivere questo pezzo, la «responsabilità» è da addebitarsi all’ottimo editoriale di Luisanna Fiorini (dirigente scolastica presso il Servizio provinciale di valutazione per l’istruzione e la formazione in lingua italiana, Provincia autonoma di Bolzano), pubblicato sul portale «FPA» il 18 marzo 2016, e dal titolo: «Il dovere della costruzione delle competenze digitali a scuola».
Sebbene facilmente ipotizzabile, questa volta non intendiamo trattare il canonico argomento a noi tanto caro, e che spesso abbiamo affrontato, ovvero l’insegnamento del digitale nella scuola. Quello che oggi intendiamo sottolineare con questo nostro articolo è la «libertà d’insegnamento» all’italiana e di come questa vada ad influenzare la libertà altrui e le scelte che ne conseguono, in molti casi inficiandole. Ovvero, di come la soggettività del corpo docente, scolastico e universitario, molto spesso si intrometta con pervasiva incisività nelle scelte che influenzeranno l’esistenza di bambini e ragazzi, a cui quell’insegnamento è rivolto. Un insegnamento che, ricordiamolo, deve rappresentare un mezzo per far crescere e progredire armoniosamente la nostra collettività e non deve mai essere funzionale a sé stesso.
A tal proposito, riportiamo le illuminanti parole della stessa Luisanna Fiorini: «Nella società si parla poco di doveri e troppo di diritti, e questo accade anche nel sistema scolastico. Il dovere di cui parlo non è imposto da circolari ministeriali, da normative e minacce di sanzioni. Nasce da una lettura attenta dei bisogni, non quelli funzionali al sistema scuola, spesso collegati a contenuti disciplinari a loro volta ostaggio degli insegnanti. La scuola italiana, e in particolare i collegi docenti, sono pronti a ribadire con forza che esiste “la libertà di insegnamento”, e in nome di questa garanzia legittimano scelte, spesso illuminate, altrettanto spesso autoreferenziali.»
Bene, ora che abbiamo toccato il punto nevralgico del nostro discorso, possiamo tornare ai nostri due simpatici Pinocchietti, ma non prima di aver sottolineato che la veridicità degli accadimenti che racconteremo deve far riflettere, e parecchio.
Fu così che i due allegri Pinocchietti si iscrissero alla Facoltà di Ingegneria, immaginando ingenuamente di intraprendere un percorso comune, che in termine di 5 anni li avrebbe condotti dritti nel mondo del lavoro. Un percorso certamente molto difficile ed impegnativo, ma che avrebbero saputo affrontare con il giusto piglio. Per altro, sempre molto ingenuamente, i nostri due Pinocchietti pensavano che frequenti visitine alle Facoltà di Economia e Commercio, Giurisprudenza e Lettere avrebbero potuto lenire il loro orgoglio ferito, nonché aiutarli ad esprimere tutto quel potenziale rimasto inesploso durante la precedente estate. Purtroppo il destino aveva in serbo per loro un progetto alquanto differente, in particolare per uno dei due.
Il discrimine non fu stabilito da quoziente intellettivo, forza di volontà, costanza o abnegazione, tutti fattori che nel corso dell’esperienza universitaria dovrebbero far la differenza in modo determinante, ma dal puro e semplice «alfabeto». Si, avete letto bene, dall’alfabeto. Insomma, stiamo parlando di quello che a Roma viene comunemente definito «culo». Fu così che uno dei Pinocchietti finì tra le matricole del canale che includeva la lettera «A», il secondo nel canale della lettera «R». Se il primo era un canale tosto, il secondo era una «Impossible Mission», che sembrava ispirata al videogioco per Commodore 64, che proprio in quell’anno fu pubblicato. Di seguito, vi descriveremo quel temibile canale «R», i suoi quattro docenti e le loro «libertà d’insegnamento».
«Allora uscì fuori il burattinaio, un omone così brutto che metteva paura soltanto a guardarlo. Aveva una barbaccia nera come uno scarabocchio d’inchiostro, e tanto lunga che gli scendeva dal mento fino a terra: basta dire che, quando camminava, se la pestava coi piedi. La sua bocca era larga come un forno, i suoi occhi parevano due lanterne di vetro rosso col lume acceso di dietro; e con le mani schioccava una grossa frusta fatta di serpenti e di code di volpe attorcigliate insieme» (Le avventure di Pinocchio – Carlo Collodi).
Cominciarono le lezioni. «Pinocchio R» era timidamente seduto tra la folla di studenti, quando il terribile prof. «Mangiafoco» entrò in aula e pronunciò poche parole introduttive: «quest’anno, alla Facoltà di Ingegneria il numero degli iscritti è stato fin troppo elevato. Cosa se ne farà l’Italia di tanti ingegneri? Dovremo fare una severa selezione». Il prof. «Mangiafoco» era piccolo e arcigno, nel corso dell’anno accademico non fece mai un sorriso, neanche uno. Quando lui entrava in aula, calava letteralmente il gelo. Le sue sessioni d’esame erano affollate di studenti che lo sostenevano per l’ennesima volta, dove «n» era un numero solitamente maggiore di 10. Il libro di testo bisognava conoscerlo a memoria; alcune frasi dovevano essere enunciate secondo una sequenza prestabilita ed alcuni termini erano «obbligatori», non erano ammessi neanche i sinonimi. In un paio d’ore riusciva a bocciare una trentina di candidati, le sue prove d’esame duravano pochi minuti. Un maledetto giorno, con voce monotona, annunciò di aver assunto anche la cattedra del secondo anno; l’equivalente di una sentenza di morte. Ci fu un silenzio straziante, rotto solo da uno studente, che si alzò ed abbandonò l’aula.
«A quest’invito il Corvo, facendosi avanti per il primo, tastò il polso a Pinocchio, poi gli tastò il naso, poi il dito mignolo dei piedi; e quand’ebbe tastato ben bene, pronunziò solennemente queste parole:
– A mio credere il burattino è bell’e morto; ma se per disgrazia non fosse morto, allora sarebbe indizio sicuro che è sempre vivo» (Le avventure di Pinocchio – Carlo Collodi).
Il prof. «Corvo», invece, era molto formale, educato, ma con nessuna attitudine all’insegnamento. La teoria non lo interessava e le sue spiegazioni erano sempre criptiche e raffazzonate, si concentrava conseguentemente sulle esercitazioni, i cui risultati erano però sempre errati, tanto da costringerlo a partire dalla fine per poi ricostruire l’intero esercizio. Le sue lezioni, pertanto, potevano definirsi un’inutile perdita di tempo, ma gli studenti non potevano esimersi dal frequentarle, perché in fase d’esame, se il prof. «Corvo» non ricordava di aver visto quel candidato durante il corso dell’anno, la prima domanda sarebbe stata fatalmente l’ultima. Ad uno studente fece un esame-lampo, da non consentirgli neanche di mettersi seduto e gli diede appuntamento alle lezioni dell’anno accademico seguente.
«Figuratevi un omino più largo che lungo, tenero e untuoso come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre e una voce sottile e carezzevole, come quella d’un gatto che si raccomanda al buon cuore della padrona di casa. Tutti i ragazzi, appena lo vedevano, ne restavano innamorati e facevano a gara nel montare sul suo carro, per essere condotti da lui in quella vera cuccagna conosciuta nella carta geografica col seducente nome di Paese dei balocchi» (Le avventure di Pinocchio – Carlo Collodi).
La volgarità e la mancanza di rispetto del prof. «Omino» erano proverbiali tra tutti gli studenti della facoltà. Agli esami derideva i candidati a cui poneva indovinelli incomprensibili. Denigrava i ragazzi fino a prenderli a male parole. Un giorno, durante una sua lezione chiamò alla cattedra uno studente disattento, gli passò un gesso e gli dettò alcuni dati che il ragazzo trascrisse sulla lavagna, pertanto gli chiese di calcolare di quanti centimetri annui sarebbero cresciute le sue corna, qualora gli fossero spuntate. Nell’attonimento generale, quello studente venne mortificato al punto che fu costretto a raccogliere le sue cose e ad uscire dall’aula per non farvi più ritorno. A causa del suo vergognoso atteggiamento personale, durante le lezioni del prof. «Omino» l’aula era sempre semi-vuota, ma ciò non sembrò disturbarlo, né essere motivo di riflessione, per nessuno.
«Ma non aveva fatto ancora mezzo chilometro, che incontrò per la strada una Volpe zoppa da un piede e un Gatto cieco da tutt’e due gli occhi, che se ne andavano là là, aiutandosi fra di loro da buoni compagni di sventura. La Volpe, che era zoppa, camminava appoggiandosi al Gatto e il Gatto, che era cieco, si lasciava guidare dalla Volpe» (Le avventure di Pinocchio – Carlo Collodi).
Il prof. «Volpe&Gatto», l’ultimo dei quattro docenti, oltre al libro di testo in adozione presso la facoltà, faceva acquistare anche alcune sue dispense, che in seguito sarebbero state rilegate in un vero e proprio libro. I suoi studenti erano pertanto costretti ad imparare figure geometriche al di fuori dei programmi ministeriali (nastro di Möbius, toro, ecc.), nonché ad approfondire gli studi del professore su ipotetiche realtà geometriche nelle «n» dimensioni. Se la geometria era di norma considerata dalle matricole una materia accessibile e se di solito veniva sfruttata per esorcizzare la paura del primo esame, nell’ambito del temibile canale «R», al contrario, questo esame era uno dei più complessi e prepararlo richiedeva un ingente sforzo suppletivo. L’ennesimo.
Basta così. Ci fermiamo qui. Avremmo potuto dilungarci molto di più su quest’argomento, ma abbiamo preferito limitarci a pochi aneddoti, i più significativi e descrittivi del distorto modo di interpretare la «libertà d’insegnamento» all’italiana.
Prima di lasciarvi, desideriamo però puntualizzare un’ultima cosa. Dopo aver raccolto le loro testimonianze, i due Pinocchietti ci chiesero di metterle per iscritto e descrivere la loro esperienza a mo’ di sberleffo nei confronti di quelle cariatidi ormai distanti nel tempo. Lo facciamo oggi, pubblicando questo nostro articolo, ma il loro racconto ha fatto emergere in noi una domanda: è mai possibile che nessuno si sia mai chiesto il perché, in una delle più grandi ed importanti università d’Europa, in quegli anni si laureassero pochissimi ingegneri il cui cognome cominciasse con la lettera «R»? Un interrogativo che immaginiamo sia destinato a giacere inevaso nei recessi delle nostre coscienze.
Oggi, i due Pinocchietti hanno fatto ormai perdere le loro tracce. Qualcuno va però raccontando che, nel tempo, i due abbiano saputo fare le loro scelte, che non abbiano rimpianti e che abbiano continuato a fare cose in giro per il mondo, sempre con la stessa umiltà di un tempo e senza mai venir meno a quei solidi e sani principi che i rispettivi «Geppetto» avevano loro impartito fin dall’inizio.
«E il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà nascosto?
Eccolo là, – rispose Geppetto; e gli accennò un grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato sur una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrociate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stava ritto.
Pinocchio si voltò a guardarlo; e dopo che l’ebbe guardato un poco, disse dentro di sé con grandissima compiacenza:
Com’ero buffo, quand’ero burattino! E come ora son contento di essere diventato un ragazzino perbene!» (Le avventure di Pinocchio – Carlo Collodi).
(Foto segnalidivita.com)