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Cittadini Attivi. Il ‘give back’ di Diego Piacentini alla prova dei fatti

«Nei miei sedici anni negli Stati Uniti sono stato contagiato da un’idea forte, quella di restituire al proprio Paese, alla propria scuola, alla propria università. È il concetto del “Give back”. Appena arrivato a Seattle nel 2000 venni invitato ad una cena di beneficenza organizzata dalla scuola elementare pubblica in cui avevamo iscritto il figlio più grande. Mia moglie, che a Milano l’anno prima aveva raccolto 800mila lire per l’asilo, era molto curiosa. Restammo sconvolti quando sotto i nostri occhi vennero raccolti 170mila dollari per finanziare le attività scolastiche. Uno dei commensali ci disse: è quasi un obbligo morale: hai avuto successo e restituisci a chi ti ha formato» (Diego Piacentini, intervista di Mario Calabresi, 30 settembre 2016, la Repubblica.it Economia e Finanza).

Diego Piacentini, 55 anni, di cui 13 trascorsi alla Apple e 16 in Amazon dove è divenuto il vice presidente dell’azienda, ha da poco accettato, a titolo puramente gratuito, la nomina da parte del Governo italiano di «Commissario straordinario per il digitale».

Com’è possibile, si interroga l’Italia, che un tale «cervellone» di così gran successo decida di tornare e restituire gratuitamente qualcosa al suo Paese?

Sebbene la politica del «give back» Piacentini l’avesse già esplicitata da tempo, la stragrande maggioranza di noi italiani è poco avvezza al concetto di buona fede, anzi ne è del tutto estranea, conseguentemente è fin da subito cominciato il bombardamento mediatico per capire cosa ci sia veramente sotto a questa sua decisione. Ovvio, perché in fin dei conti siamo tutti intimamente certi che l’etica non ci azzecchi proprio nulla con tutto ciò.

Ma, ciò che più di tutto fa stizzire noi italiani ed alimenta fortemente la nostra «cultura del sospetto» è che questo distinto signore, Diego Piacentini, ha perfino la faccia tosta di fare tutto questo «pro bono publico», il che equivale a dire gratis. E no, questo è davvero troppo, per noi italiani una tal cosa è decisamente intollerabile. Qui, gatta ci cova!

Per l’immediato futuro possiamo addirittura prevedere che, dopo aver selezionato in pochi giorni tutte le competenze necessarie alla sua squadra di lavoro tra le migliaia di «curricula vitae» che giungeranno, ci sarà qualche buontempone che riuscirà perfino a dire che i criteri di scelta non sono stati pubblicati ufficialmente, e neppure la graduatoria, arrivando al punto di paventare perfino un ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale (TAR) con relativa richiesta di sospensiva e arriverà anche a proporre che la procedura, che secondo burocrazia sarebbe dovuta durare i classici 18 mesi di un concorso pubblico italiano (indicativamente il tempo della permanenza di Piacentini in Italia), andrebbe totalmente rifatta.

In breve e senza troppi sforzi, sapremo fargli rimpiangere di aver solo pensato di applicare in Italia quell’americanata del «give back». E abbiamo la netta sensazione che qualcuno si stia già premunendo di mettere le cose in chiaro fin da subito; agli italiani ste cose non piacciono.

Il circo mediatico si è già messo in moto da tempo. Ciò che più temiamo è che non riserveremo a Piacentini alcun trattamento di riguardo, anzi, con buone probabilità sapremo fargli rimpiangere le decisioni prese. In questo, ci dimostreremo ancora una volta un Paese misero e triste, che assomiglia più al cortile di una parrocchia, dove i bambini giocano al «tutti contro tutti», piuttosto che ad un Paese civile e progredito.

Forse, prima della sua partenza da Seattle, magari utilizzando proprio il servizio «Amazon Prime», avremmo dovuto far recapitare a casa di Piacentini una copia del libro di Antonio Menna, che narra l’amara storia di due ragazzi che in un garage inventano un computer innovativo, leggero, velocissimo, stabile ed inattaccabile. Una storia purtroppo amara, perché ambientata a Napoli, dove il genio non basta a liberare un destino imbrigliato dalla burocrazia, dalle regole non scritte, dai furbi ben ammanigliati, dai soldi che non ci sono, dal malcostume, dal malaffare e dalla corruzione. In breve, i due ragazzi si scontrano con il peggio che può offrire il nostro Bel Paese. «La Apple in provincia di Napoli non sarebbe nata, perché saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più» (Antonio Menna, «Se Steve Jobs fosse nato a Napoli»).

Chissà, forse Diego Piacentini pensava che per fare bene nel nostro Paese, così come canta Niccolò Fabi, sarebbe bastato «essere padre di una buona idea». Forse, molto più semplicemente, l’Italia che egli ricorda nelle sue memorie di bambino non esiste più. O forse, non è mai esistita.

Già, tutto vero, ma noi, valenti «Cittadini attivi», abbiamo il dovere di essere ottimisti e propositivi. Non vogliamo alimentare alcuna polemica, né cedere al qualunquismo, piuttosto, vogliamo credere ciecamente nella morale e nell’etica.

A nostro modesto avviso riteniamo che giocar male la carta Piacentini sarebbe un vero peccato per tutto il nostro Paese, addirittura un danno. Bontà divina, ciò che intendiamo dire è che siamo «incappati» in un vero fenomeno del settore digitale e dell’ambito manageriale (e non è che ce ne siano poi tanti in zona), un talento riconosciuto a livello internazionale, disposto a dare il suo contributo per meri motivi etici, dunque, perché non sfruttare quest’opportunità?

Oltretutto, la questione etica, sollevata da Piacentini con la politica del «give back», potrebbe rappresentare una di quelle rare occasioni per il nostro Paese, in cui ciascuno di noi coglie l’occasione per rivedere l’ordine delle proprie priorità, magari anteponendo il confronto alla disputa, la solidarietà all’individualismo, la rinuncia all’accaparramento, in breve, l’etica all’immoralità. A tal riguardo, e nella speranza che siano di buon auspicio alle attività che Diego Piacentini sta, giusto in questi giorni, intraprendendo per amore del suo Paese natale, vogliamo concludere questo nostro pezzo con le commoventi parole di un nostro caro, vecchio amico:

«Ricordo un giorno di tanti anni fa, quando non ero ancora padre; fino a poco tempo prima avevo la tessera ATAC «intera rete», in seguito cominciai ad andare in ufficio con l’automobile e non l’ho più comprata. Quando hai avuto l’abbonamento per tanto tempo, può capitare che ti scordi di vidimare il biglietto. Quel giorno, difatti, dopo essere sceso dall’autobus mi sovviene di non averlo annullato, quindi lo prendo, lo guardo e lo getto nel cassonetto della carta riciclata. Un piccolo gesto, ma estremo per un italiano. Italia, che avrebbe bisogno di milioni di gesti estremi di questa natura. Ebbene, se debbo identificare un momento preciso, quello per me è stato la mia svolta etica. La mia vita ha poi subito un processo di miglioramento continuo, ed è proprio questo il messaggio che voglio trasmettere, oggi, da qui. 

Ho la forte convinzione che se uno vive al di fuori dalla cultura corruttiva, ma piuttosto nell’onestà intellettuale, vive davvero meglio, sta meglio con sé stesso ed è ciò che dovremmo insegnare ai nostri figli, per non dover sperare che un giorno se ne vadano a vivere in un Paese migliore. Tra l’altro, la maggior parte delle persone corrotte non ha nessuna necessità di esserlo e, se capissero che il sorriso di un figlio, uno sguardo d’amore, l’abbraccio di un amico, il grazie di uno sconosciuto a cui hai dato una mano in un momento di bisogno, hanno un valore incomparabilmente superiore a qualsiasi altro ritorno, no, loro non abbraccerebbero mai il lato oscuro» (Darth Vader, «Tra etica, digitale e follia. Fare squadra per l’innovazione», Forum PA 2015).

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