Sento dire da un sacco di tempo che esiste un Paese a due velocità: il Nord produttivo e virtuoso contrapposto al Sud povero, sprecone e assistenzialista; l’Italia delle partite Iva e della libera impresa antitetica a quella statalista e capace soltanto di dissipare; l’Italia supponente dei 50 milioni di commissari tecnici che tifa contro, a prescindere, e quella che sale sul carro del vincitore quando si vincono i Mondiali.
Vorrei pertanto presentarvi anch’io una storia di apparente sfrontato qualunquismo.
Da quando sono stato assunto, quasi trent’anni fa, presso una pubblica amministrazione centrale è scattato immediato (negli altri) il riflesso condizionato che mi ha fatto apparire come colui che aveva risolto tutte le incognite della vita a favore di poche granitiche certezze: un piccolo posto dal modesto stipendio in cambio di un’assicurazione a vita lastricata di svariati bonus: lavorare poco senza rischiare, approfittarsene potenzialmente del prossimo e sperare nello “stellone italiano” di andreottiana memoria. Del resto i tempi erano quelli della Prima Repubblica, quella che, per dirla con Checco Zalone, “non si scorda mai!”.
Tutti i pregiudizi e le classiche iconografie stataliste si concretizzavano fatalmente al momento del contatto coi “gangli produttivi” della mia amministrazione: una marea di variegati dipendenti coabitanti in spazi ristretti, controlli nulli, carta a tonnellate, parcellizzazione degli incarichi, gran quantità di tempo libero nel quale i più virtuosi si tuffavano per alimentare altri lavori misteriosi o per trovare il tempo di laurearsi e nello stesso tempo trovare lo sponsor per il successivo super-concorso-a-premi che gli avrebbe fatto guadagnare di più e lavorare ancor meno. Che bello! Però soffrivo…
Ho avuto anche la possibilità (dico ‘possibilità’ perché ho potuto scegliere) di lavorare fuori Roma, sperimentando una mobilità ante-litteram che mi ha aiutato a vedere se questi statali erano poi così neghittosi anche fuori da Roma-ladrona. Che bello! Ma soffrivo anche lì, perché i difetti di periferia mi parevano persino peggiori di quelli della sede centrale: ore di lavoro al minimo, spiccato egoismo malcelato dietro un’apparente giovialità, oltre che forte litigiosità interna, spiegata forse dal fatto che poche persone chiuse dentro un angusto ambiente sembrano un po’ criceti che corrono dentro la ruota, inutilmente.
I miei vecchi dirigenti, quelli dell’altro millennio, dicevano che non era importante saper organizzare al fine di lavorare meglio, ma piuttosto ammiccare a tutti i sottoposti, spesso mettendoli gli uni contro gli altri per far capire loro (dopo, col bonario rimbrotto) chi davvero comanda. Insomma, il vecchio adagio siciliano del ‘megghiu cumandari ca fotteri’! Bella roba! Infatti soffrivo.
Ora mi direte: ma questo che cosa vuole? Vuol farci credere che ha fatto parte del partito degli Incompresi nel giardino del Luogo Ameno delle Delizie? Che gli altri sono tutti sbagliati e – se non lo sono – che il Sistema è marcio?
Ho amici pluritrentennali con cui mi sono sempre confrontato passivamente in proposito: sono brillanti ed hanno sempre qualcosa di intelligente da raccontare. Sono informatici, assistenti sociali, insegnanti, medici e librai. Persino quelli disoccupati, al contatto quotidiano col brutto mondo che c’è fuori, hanno aneddoti positivi da narrare e storie di vita “(im)produttiva” da contrapporre. Io niente: io faccio lo statale e confermo omertosamente i loro pregiudizi. Magari li ho involontariamente alimentati per tutti gli anni in cui ho risposto – durante i miei due/tre minuti di autocoscienza che avevo a disposizione – che da me è tutto un casino… Stop. Scaduto il tempo. Non è interessante. Tanto lo sappiamo…
Ho un “difetto” in più: oltre che ad essere statale, sono pure juventino: la squadra più odiata, quella che “ruba” come gli statali. E quella più amata, come il posto fisso!
E l’altro giorno, come al solito (e per la milionesima volta) ad una mia ironica battuta sulla beata nullafacenza di una coppia di miei amici in ferie da tre giorni, mi è stata contrapposta la replica: “parli proprio tu che sei statale!”. Un WhatsApp al vetriolo…
E’ stata colpa mia, certo. All’interno del mio posto di lavoro, avrò sbagliato a frequentare negli anni le persone che volevano fare qualcosa, quelle che mi potevano insegnare cose utili per operare, a chiedere ai superiori di lavorare a contatto col pubblico per semplificare le esigenze di quest’ultimo; e ancora: di fare esperienze fuori Roma, di imparare l’informatica, di impegnare i vari momenti del lavoro per non dare l’impressione a me stesso di scaldare la scrivania. Cercare d’immaginare il futuro e non solo il presente, essere almeno una piccola sana molecola di civil servant.
Non ci crederete ma in cambio ho ricevuto tante cose, per me essenziali: rispetto, professionalità e affetto e, pur non seminando granché, mi sono sempre naturalmente ritrovato in ambienti virtuosi. Basta cercarli. Ma in tutti questi anni, ai miei amici non ho mai rivelato di queste persone umili e integerrime, che sono tante e che magari, come me, vengono ‘vilipese’ perché lavorano per lo Stato, per interposta persona nullafacente. Non ho mai colpevolmente raccontato le storie dei tanti progetti finiti e dati alla luce con successo, di competenze nascoste e dei pochi dirigenti capaci. E’ stata la mia mancanza di coraggio a farmi ottenebrare al cospetto delle solite banali accuse.
E quei miei amici sono solo una scusa per dire a tutti i lavoratori statali onesti (io, per onestà, mi tiro fuori) che si può, si deve uscir fuori dal guscio della mediocrità e dei proclami simil-leghisti: uscir fuori magari anche per non concretizzare niente di rivoluzionario, come questo articolo, ma per far capire che il problema è solo l’ignoranza che porta ignoranza, una forma perversa di ars gratia artis* mirata al mantenimento dello status quo di cui ancora siamo purtroppo afflitti, ma a tutti i livelli.
Sono pertanto sicuro che i miei amici, dopo tutti questi anni, se ancora mi conservano come loro amico, hanno forse capito che non è vero che siamo tutti fannulloni.
Ed oggi ho trovato il coraggio di scriverlo.
*l’arte per il gusto dell’arte (qui in forma negativa)