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Cittadini Attivi. Il Belpaese in svendita: alcune riflessioni su ‘Goodbye Telecom’ di Maurizio Matteo Dècina

Il libro di Maurizio Dècina, come d’altronde anche il precedente, è una lettura che ti “inchioda” a continuare finché non lo finisci. La comprensibilità del testo è indubbia anche nelle parti più ostiche soprattutto per chi, come il sottoscritto, non mastica né di Economia né di Finanza.

Il testo offre un numero veramente impressionante di spunti di riflessione (qui ne analizzeremo solo alcuni e non escludo che ci saranno altri approfondimenti) che vanno ben al di là dello specifico caso trattato e che delineano alcune tematiche italiane del tutto generalizzabili, qui descritte per il settore delle telecomunicazioni, ma estendibili a molti altri settori che si influenzano e si intrecciano fra loro.

Il libro ripercorre le vicende della società italiana ricostruendo i vari passaggi di mano: la privatizzazione operata dall’Iri, la scalata di Roberto Colaninno, l’acquisizione di Marco Tronchetti Provera sino a giungere ai giorni nostri, con l’ingresso della società spagnola Telefonica e i rischi di vendita di redditizi asset stranieri come quelli in America latina.

I tre stati d’animo descritti nella prefazione dal Presidente dell’Autorità Garante per le Comunicazioni (rimpianto-disappunto-fiducia) hanno subito, dopo la lettura, una trasformazione in tre elementi che si susseguono reiteratamente: turbamento (nell’apprendere i fatti), disappunto (dopo un’attenta fase di analisi dei fatti) e sfiducia mista a fiducia (la logica conseguenza risultato della sommatoria delle delusioni sofferte per tutti i fatti accaduti negli ultimi 30 anni).

Chi si scandalizza, o non sa leggere o finge di non accorgersi; questo è uno degli innumerevoli casi dove le vicende venute a galla narrano di un pericoloso intreccio fra politica, amministrazione, imprenditori che devono allarmare.

Fino a non molti anni fa Telecom Italia, oltre che la più grande azienda italiana, era una delle aziende di telecomunicazioni più vincenti nel mondo grazie alle geniali intuizioni; un’azienda antesignana, addirittura rivoluzionaria, capace di aprire le porte della nuova era dell’economia digitale. Tutti invidiavano le sue competenze frutto di anni di professionalità e ricerche; all’interno si respirava un’aria di entusiasmo, aspettativa di crescita e esaltazione.

L’Italia è sempre stata terra di conquista, con la differenza che, nei secoli scorsi, le invasioni e le dominazioni erano di carattere politico, mentre ciò che avviene da qualche anno a questa parte è la conquista di risorse economiche e di aziende.

L’elenco dei marchi italiani che operano ancora nel Belpaese, ma che sono sotto il controllo di multinazionali o di aziende estere, è interminabile e continua a crescere di giorno in giorno. Ormai non c’è più prodotto “made in Italy” per il quale gli utili prodotti non finiscano nelle casse di qualche multinazionale estera.

Sono in migliaia ad aver approfittato del momento di difficoltà economica causato da scelte politiche sbagliate e che oggi godono del valore aggiunto derivante dall’immettere sui mercati esteri un “prodotto italiano” (Cina, Francia, Inghilterra, Sud Africa, Belgio, Giappone, Canada, India, Olanda, Germania, Svizzera, USA, Turchia, Russia, Egitto, Spagna). Le notizie di cessioni ai colossi stranieri continuano a susseguirsi a ritmo vorticoso; le nostre eccellenze, riconosciute e invidiate nel mondo – artigianato e tradizione, aziende di punta del settore dell’industria, della moda e degli alimentari e ultimamente persino quelle del gioco del calcio – vengono acquisite con preoccupante costanza dagli stranieri.

Siamo avviati ormai su una china molto pericolosa per l’occupazione e per l’approvvigionamento delle materie prime, che emigrano in terra straniera. Vendere è diventato forse di vitale importanza per gli imprenditori, ma in tutto ciò è evidente l’assenza dello Stato, che nulla sembra volere e poter fare per arrestare tale dissoluzione. Non esiste settore merceologico che non sia stato toccato dalle ricchezze straniere.

La strategia degli acquirenti è semplice: attendere il momento di difficoltà economica per appropriarsi di aziende con valore aggiunto notevole visto che, seppure non più italiano al cento per cento, il prodotto “made in Italy” è apprezzato e vende sempre e comunque, soprattutto all’estero. Ecco così ridotta al lumicino l’opportunità di crescita per il nostro comparto esportazioni.

Da oltre 20 anni sembra che quelle che un tempo erano guerre di conquista sul nostro territorio, generate da motivazione salvifiche, si siano ripresentate anche in economia a causa di una classe politica in parte complice, spesso incapace che ha destabilizzato e demolito il tessuto sociale e imprenditoriale. Si assiste ad un sistema di saccheggio legalizzato instaurato, per lo più, dall’élite che controlla la finanza globale, ad un insieme di spietate strategie a danno della gente che vengono spacciate per interventi salvifici; scelte che sembrerebbero obbligate dagli eventi e necessarie per la salvaguardia dell’azienda, ma che, ad un’analisi più attenta, rivelano essere controproducenti e strategicamente poco lungimiranti.

Occorre, allora, definire chiaramente un obiettivo per passare dalla sopravvivenza al rilancio; la sopravvivenza non dà futuro ed è solo una lenta agonia verso il fallimento. Stabilire invece un obiettivo consente di avere una chiara visione di quello che l’azienda sarà o dovrà essere nel mercato, quale sarà la sua posizione rispetto alla concorrenza e quali dovranno essere le innovazioni dei prodotti e dei servizi offerti.

Sarà necessario quindi individuare una strategia che possa consentire di raggiungere l’obiettivo individuato in un lasso di tempo stabilito; questo percorso di cambiamento basato sull’innovazione avrà necessariamente impatto non solo sui processi produttivi, ma anche e soprattutto sulla cultura e sulle competenze dell’azienda.

E’ indubbio che un cambiamento della posizione nel mercato richieda un grande salto culturale e cognitivo. Un’organizzazione (cioè un insieme di persone che collaborano in modo coordinato per il raggiungimento di un obiettivo) si alimenta con l’accrescimento delle competenze e delle professionalità delle persone che ne fanno parte; la capacità di innovazione e di miglioramento dell’azienda è allora direttamente proporzionale alla crescita delle competenze associate a motivazione e professionalità. La competenza, qualità essenziale e combinata di conoscenza e abilità, è la capacità di fare bene qualcosa riferita ad uno standard ed è una qualità che deve estendersi all’intera organizzazione e non solo alla figura del leader.

Il nostro Paese, però, soffre di alcune patologie come i fenomeni di nepotismo che prevaricano reali abilità e competenze, o il baronismo (sinonimo del precedente, ma con accezione ironica e ancor più negativa), il familismo e il clientelismo. Tali fenomeni costituiscono un pericolo perché determinano una concentrazione di poteri nelle mani delle stesse persone ed ostacolano il necessario ricambio generazionale nelle varie istituzioni ed un accesso meritocratico sia nel privato che nel pubblico.  Sono indice di un vero malcostume finalizzato, da parte di chi se ne avvantaggia, al mantenimento di un posto di potere con scopi lontani dal bene collettivo e dall’interesse stesso della società civile. Risulta evidente che ogni struttura deputata ad amministrare potere è esposta ad essere utilizzata da chi agisce per fini personali di arricchimento o di conseguimento di posizioni di privilegio.

Nonostante la sensazione di sfiducia che, come cittadini, ci pervade, accettare uno stato di fatto e subirlo equivarrebbe ad esserne complici. La “res publica” siamo noi e se il cambiamento non parte dalla consapevolezza di ciascuno, allora neanche il Paese potrà cambiare.

Sarà quindi necessario “rimboccarsi le maniche” per far funzionare un nuovo modello di sistema basato sull’etica nel quale tutti gli attori coinvolti, in primis la Politica, il management e l’imprenditoria, saranno chiamati a rispettare e far rispettare le regole stabilite, ma il buon esito del cambiamento dipenderà anche e soprattutto da noi cittadini essendo parte integrante di questo meccanismo.

Errori e scandali non ce li possiamo più permettere; il pessimismo ci assale perché sono evidenti gli intrecci di interessi fra politica ed economia che alimentano ciò che nel libro di Dècina viene definito il sistema di meccanismi deviato delle “scatole cinesi”.

Per mantenere un pizzico di speranza, per quanto amareggiati dalla realtà che viviamo, dovremmo attingere a quanto detto dall’antropologa Margareth Mead: “Non dubitare mai che un piccolo gruppo di cittadini riflessivi e impegnati possa cambiare il mondo; anzi, è l’unica cosa che possa essere” … e come ironicamente canticchiava il Maestro Enzo Jannacci: ….e sempre allegri bisogna stare / ché il nostro piangere fa male al re / fa male al ricco e al cardinale / diventan tristi se noi piangiam….”.

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