Questo paese, o anche qualsiasi spazio di discussione, ha il vizio di parlare solamente di ciò che non va (corruzione, malgoverno, disoccupazione, debito pubblico, nepotismo, immigrazione) e di piangersi addosso tralasciando e non dando risalto alle “buone notizie”.
Non mi riferisco alla coesa nazionale di calcio dell’ex C.T. Conte che ha infiammato i cuori al campionato europeo. C’è di più. Perché se è vero che siamo solo al 73° posto nella classifica della libertà di stampa è anche vero che in quella dell’analfabetismo funzionale ci piazziamo al primo posto, distanziando abbondantemente gli altri concorrenti. Questo emerge da un’indagine dell’Human Development Report del 2009.
Per “analfabeta funzionale” si intende un individuo in possesso di un’alfabetizzazione di base, in grado quindi di scrivere e leggere un testo nella sua lingua nativa, ma incapace di comprendere il contenuto di un contratto, di un articolo di giornale o di una domanda di impiego.
È vero che il Messico ci segue a brevissima distanza, ma tra noi e il terzo posto occupato dall’Irlanda c’è un distacco che è più del doppio della differenza fra le due percentuali, e quindi praticamente non c’è gara.
Una percentuale di analfabetismo da capogiro che ci riempie di orgoglio, e che significa che quando ti scrivi con un amico statisticamente uno dei due non ci sta capendo nulla.
E qui viene il bello: gli analfabeti funzionali possono essere soggetti a intimidazione sociale, a rischi per la salute, a varie forme di stress, a bassi guadagni ed altre insidie associate alla loro inabilità. La correlazione tra crimine ed analfabetismo funzionale è ben nota a criminologi e sociologi. Nei primi anni di questo secolo è stato stimato che il 60% degli adulti nelle carceri federali e statali degli Stati Uniti fosse funzionalmente o marginalmente analfabeta, e che l’85% dei delinquenti minorenni avesse problemi riguardanti la lettura, la scrittura e la matematica di base.
Ho letto un’intervista del 2015 a uno dei più importanti linguisti italiani ed ex ministro dell’istruzione: “La parte di popolazione italiana al di sotto di quelli che vengono ritenuti i livelli minimi di comprensione di un testo scritto è un po’ più del 70% della popolazione”. Mentre mi chiedevo come si possa vivere senza riuscire a capire un qualsiasi foglietto illustrativo o l’articolo di un giornale, la dose era rincarata: se il testo richiede “…pieno esercizio dell’alfabetizzazione funzionale, della capacità di orientarsi di fronte al testo scritto e di produrlo, la percentuale degli inefficienti arriva addirittura all’80%”.
A questo punto sorge spontanea una domanda: “Che cosa sanno gli italiani della lingua che dichiarano di parlare?”. Il punto è questo: non si tratta solo di conoscere l’alfabeto, l’ortografia e la sintassi della nostra lingua, ma di capirne logica e semantica e, soprattutto, di farne uso in diverse situazioni della nostra vita, in modo da rendere possibile il nostro sviluppo e quello della comunità che in cui viviamo.
Scopro che gli italiani hanno iniziato a cercare informazioni sull’argomento dopo il 2013, quindi piuttosto recentemente, entrando davvero nel vivo della questione dopo la pubblicazione del Rapporto Nazionale sulle Competenze degli Adulti 2014, curato dall’ente di ricerca ministeriale ISFOL. Il rapporto inizialmente recita così: “Come è noto, uno dei fattori principali su cui l’Italia può fondare il suo sviluppo economico e sociale, in mancanza di materie prime, è rappresentato dalle competenze dei suoi cittadini.”
Dobbiamo quindi essere grati ai tanto criticati e biasimati uomini politici per averci condotto su vette così alte. Un primato che, anche se sono passati sette anni dalla rilevazione, siamo disposti a mantenere saldamente grazie agli accadimenti intercorsi nel meraviglioso stivale in questo periodo. Anzi, a ben vedere, siamo impegnati nell’aumentare i distacchi.
Ma senza volontà politica il problema non si risolve. Ad maiora!