Ieri nel tardo pomeriggio, mercoledì 26 giugno, è andata in scena, nella riunione n° 63 del Consiglio dei Ministri, una strana… “rappresentazione” di coreografia politica.
Se il dibattito politico sembra essere concentrato su tematiche di grande priorità nazionale (dalla Tav alla “flat tax” al rischio di procedura d’infrazione da parte dell’Europa), e sulle sempre più evidenti tensioni tra la Lega Salvini ed il Movimento 5 Stelle, il consiglio dei ministri, in una breve riunione (dalle 19.37 alle 20.30), ha ritenuto di dedicare particolare attenzione a tematiche apparentemente minori: il personale delle fondazioni lirico-sinfoniche ed il sostegno del settore del cinema e dell’audiovisivo.
Causa stallo infra-governativo, infatti, sul tavolo dei lavori non è stato presentato il ddl di assestamento di bilancio, né il testo sull’autonomia regionale né il dossier “autostrade”. Le questioni nodali si accantonano, e si passa alle questioncelle minori.
A cosa è dovuta tanta improvvisa sensibilità…culturale, al punto tale da rendere necessario addirittura un decreto-legge? L’incipit del decreto-legge approvato ieri recita: “considerata la straordinaria necessità e urgenza di adottare misure immediate di semplificazione e sostegno nel settore del cinema e dell’audiovisivo”.
Francamente, queste “necessità e urgenza”, finanche “straordinarie”… sfuggono ai più.
Una lettura malevola (ma oggettiva?!) potrebbe sostenere che, non riuscendo a sciogliere “nodi” più grossi ed intricati, il Consiglio dei Ministri ha deciso di affrontare questioni “marginali”, che certamente non hanno appassionato tutti i ministri. In effetti, è un dato di fatto oggettivo che la materia “cultura” non rientri esattamente tra le tematiche prioritarie dell’attuale maggioranza.
Concentriamo qui l’attenzione sulle misure adottate in materia di cinema e audiovisivo. Il comunicato stampa di Palazzo Chigi recita: “si introducono alcune misure urgenti di semplificazione e sostegno per il settore cinema e audiovisivo, rendendo più funzionali le modalità con cui i fornitori di servizi di media audiovisivo devono promuovere le opere europee e italiane e prorogando al 1° gennaio 2020 l’entrata in vigore dei nuovi obblighi”.
Obblighi e quote: allentati e rimandati
In altre parole: obblighi e quote, questioni che – da sempre – vengono osteggiate dalle emittenti televisive, teoriche del libero mercato. Allentate e rimandate.
Si precisa che “in particolare, le modifiche riguardano la definizione delle nuove aliquote degli obblighi di programmazione e di investimento in produzioni italiane relative alle emittenti televisive, in una misura compatibile con le prospettive economiche degli operatori”.
Tradotto in italiano corrente: si tratta di modificazioni normative che sono state concordate con “broadcaster” ed altri “player”, i quali sono evidentemente riusciti ad imporre le loro ragioni: vedi alla voce “compatibilità”… La “relazione tecnica” spiega, senza pudore: “molte delle modifiche proposte, fra cui le nuove aliquote relative alle emittenti televisive, sono state suggerite, in accordo fra di loro, dai soggetti sopra indicati”.
Ancora una volta, il Governo appare molto ma molto sensibile rispetto alle ragioni della storica Anica e della consorella Apa (Associazione Produttori Audiovisi) e finanche di Confindustria Radio Televisioni (Crtv).
Conferma di questa dinamica di legislazione morbida si ha da un altro passaggio del comunicato, che riguarda gli obblighi degli “operatori on demand”: “nel contempo, si rafforzano le misure a sostegno delle opere di espressione originale italiana (che nel previgente sistema erano limitate alle sole opere cinematografiche) e a sostegno delle opere recenti, si rivedono gli obblighi in capo agli operatori on demand, con un maggior allineamento rispetto alle emittenti televisive “tradizionali” e si rafforza un sistema di flessibilità, senza rivedere, tuttavia, il nuovo e più efficace sistema sanzionatorio”. E qui, la parola-chiave è “allineamento”… alla “flessibilità”.
L’impressione che si matura è di un intervento normativo (rectius, di una proposta di intervento normativo, dato che il decreto-legge deve viversi il suo bell’iter, prima di divenire legge dello Stato, e con questo esecutivo traballante chissà che chance ha la legge di conversione…) frutto di quella spesso tanto auspicata “concertazione” che non sempre rappresenta il modello normativo di eccellenza, in un Paese nel quale, fatta la legge… spesso si trova l’inganno.
Il testo del decreto legge in anteprima su “Key4biz”
“Key4biz” è in grado di proporre – in anteprima ed in esclusiva – il testo del decreto approvato dal Consiglio dei Ministri: ci sarà chance di analizzare approfonditamente il documento, nella sua tecnicalità, data la discreta complessità della materia e finanche la necessità di ricostruire un testo normativo aggiornato alla luce delle modificazioni.
Alcune questioni critiche emergono, metodologiche e politiche: anzitutto, si tratta veramente di tematiche così urgenti? Perché il Governo ha deciso di adottare lo strumento del decreto-legge?
Abbiamo già segnalato su queste colonne (vedi “Key4biz” del 20 giugno 2019, “Gli over 64 utilizzano sempre di più il web, lo dice l’Istat”) che venerdì 14 giugno, la Sottosegretaria leghista, la senatrice Lucia Borgonzoni, sempre più attiva su più fronti, aveva annunciato che: “alla luce di quanto richiesto in maniera unitaria dai produttori cinematografici, dalle emittenti televisive e dalle piattaforme video, che esprimevano difficoltà di applicazione davanti ad alcune misure obbligatorie previste dalla normativa vigente, ritenute poco in linea con il mutato contesto del settore e frutto di un ‘non dialogo’ istituzioni/settore, ho ritenuto e condiviso con il Mise un percorso di modifiche per non mettere in difficoltà un comparto che rappresenta una parte importante della nostra industria culturale e forte attrattore di capitale, con potenzialità che hanno margini di crescita che vanno incentivate e non penalizzate”.
La Sottosegretaria aveva precisato che “l’intervento sarà finalizzato a mitigare il sistema attuale in quegli aspetti che imbrigliano troppo il settore, a partire dagli obblighi di investimento, che devono tenere conto delle prospettive economiche e soprattutto andare maggiormente a sostegno di tutte le produzioni italiane, cinematografiche e televisive, che devono essere sostenute e incentivate. Interverremo anche in merito agli obblighi di programmazione delle emittenti televisive, che vogliamo riportare ai termini previsti prima della riforma del 2017 e mantenere per la Rai l’obbligo di programmazione di prima serata, obbligo che per le altre reti potrà essere sostituito con maggiore acquisto di prodotto recente”.
Il decreto legge approvato ieri doveva entrare nel Consiglio dei Ministri del 19 giugno, ma era stato ritirato “last minute”. È però entrato ieri ed è stato approvato.
Anche qui, una parola-chiave sintomatica: “mitigare”, ovvero “mitigare il sistema attuale in quegli aspetti che imbrigliano troppo il settore”.
Inevitabile l’eco delle mitiche parole (parafrasando Tommaso Campanella) del liberal-liberista per eccellenza Guido Carli, Governatore della Banca d’Italia dal 1960 al 1975, che, in un intervento del 1973 (divenuto poi il titolo di un libro), teorizzava la necessità di superare i “lacci e lacciuoli” – giustappunto – del sistema normativo italiano, per scardinare “la predilezione antica per le leggi tiranniche che sono molti lacciuoli che ad uno o a pochi sono utili”.
Or bene, non crediamo che in verità il sistema delle quote, introdotto in Italia da esponenti della sinistra storica come Walter Veltroni e Vincenzo Vita siano disposizione… “tiranniche”.
La morbidezza con cui sono state introdotte, la debolezza di un reale sistema di controlli, l’assenza di un minimo apparato sanzionatorio significativo hanno reso “le quote” più un auspicio che un dovere.
Genesi e sviluppo delle “quote”
Ricordiamo che la questione delle “quote” è stata introdotta trent’anni fa, con la Direttiva Europea del 3 ottobre 1989, la n. 552, la famosa “Tv senza frontiere”: si discuteva allora di “diversità culturale”, ma la questione mantiene una sua attualità, pur nel nuovo habitat digitale. In Italia, le direttive europee (oltre alla n. 552, la n. 36 del 1997) trovarono attuazione compiuta con la legge n. 122 del 1998, in cui si sanciva il doppio obbligo, di trasmissione (più della metà del tempo mensile dei palinsesti) di film e audiovisivi italiani ed europei, nonché di produzione (10 % dei ricavi a carico delle emittenti private, 20 % per la Rai).
La legge 122 fu fortemente voluta dall’allora Sottosegretario Vincenzo Vita, nel primo governo Romano Prodi. Scrivevamo cinque anni fa: “obblighi che sono stati allentati nel corso degli ultimi 15 anni, a causa di una sorta di sciame normativo-regolamentare e soprattutto a causa di una sostanziale assenza di controlli, fenomeni che hanno determinato il tradimento dello spirito che aveva ispirato il Legislatore di allora” (clicca qui, per leggere l’articolo “Un sistema sregolato”, sull’edizione n° 449 del mensile “Millecanali”, novembre 2014). Su queste vicende – storiche ma attuali – si rimanda al pamphlet appena pubblicato da Vincenzo Vita, “Rosso Digitale”, per i tipi di ManifestoLibri, per comprendere le ragioni che spinsero il governo ad introdurre le quote, e perché esse abbiano ancora oggi senso. Non è casuale che le “quote” siano state recentemente invocate – da più parti – per la trasmissione di musica italiana sulle emittenti radiofoniche: non si tratta di “follia passatista”, ma di concretezza strategica…
Avevamo commentato su “Key4biz”, la settimana scorsa: insomma, ci attende una piccola (grande) rivoluzione neo-liberista, a fronte del dirigismo statalista (peraltro “soft”) di Dario Franceschini?! Ci eravamo domandati: bye bye “quote obbligatorie” di trasmissione e di investimento?
Ci auguravamo che così non fosse, perché si andrebbe a vanificare uno dei pochi strumenti di stimolazione reale (per quanto “coercitiva”) della produzione audiovisiva nazionale. E francamente non abbiamo condiviso l’entusiasmo della Sottosegretaria Borgonzoni, che esultava per un annunciato investimento da parte di Netflix nell’ordine di 200 milioni di euro nella produzione audiovisiva italiana nei prossimi 3 anni. Dato il livello di (totale) non trasparenza di Netflix, peraltro ci si può fidare di simili annunci?
Fede cieca nel libero mercato e nella sua autoregolazione?
Non crediamo che il mercato rappresenti il tutto, in un sistema sociale evoluto e democratico: il mercato è una parte del tutto, e lo Stato non deve inginocchiarsi di fronte alle ragioni della libera impresa.
Il Governo ha evidentemente deciso di accogliere la linea della Sottosegretaria leghista.
Nella “relazione tecnica” che accompagna il decreto-legge, si legge: “il sistema degli obblighi di investimento e programmazione, come configurati nel testo vigente del Titolo VII del decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177 (come modificato e integrato, in particolare da decreto legislativo 7 dicembre 2017, n. 204) vede una misura risultata eccessiva di taluni obblighi, con la presenza di previsioni che appaiono limitative della libertà imprenditoriale degli operatori”. Più chiaro di così?! Mediaset, Rai, La7, Sky, Fox e tutti i “broadcaster” avranno stappato ieri sera una bottiglia di champagne.
Interessante una spiegazione del redattore della “relazione tecnica”: “viene rafforzato un sistema di flessibilità, senza rivedere, tuttavia, il nuovo e più efficace sistema sanzionatorio”. Rafforzata la flessibilità, bell’espressione! Più “efficace” il sistema sanzionatorio?!
Sarà interessante registrare il commento dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, per quanto a fine mandato.
Sarebbe utile comprendere se queste modificazioni significative sono state adottate alla luce di adeguati studi di valutazione di impatto: temiamo di no, dato che, “ab origine” il sistema delle quote e degli obblighi (trasmissione ed investimento) non è mai stato oggetto di analisi approfondite, anche a causa giustappunto della frequente “sonnolenza” di Agcom. Ed abbiamo denunciato più volte come la stessa “legge Franceschini” sul cinema e l’audiovisivo non sia ancora stata oggetto di quella “valutazione d’impatto” pur prevista dalla legge stessa…
Sarà poi opportuno verificare quanto questo approccio del Governo sia del tutto compatibile con la normativa europea…
Non dobbiamo celarlo: da studiosi (da oltre un quarto di secolo) del sistema culturale italiano (con particolare attenzione all’audiovisivo) riteniamo che il “sistema delle quote” sia adeguato allo sviluppo delle industrie dell’immaginario, perché “il mercato”, da solo, produce deficit.
Scardinare il già debole sistema “coercitivo” italiano, ovvero anche soltanto allentarlo, significa indebolire la capacità di produrre immaginario nazionale.
Il decreto-legge interviene anche su un’altra questione-chiave della “legge cinema”, ovvero la quota percentuale dei cosiddetti “contributi selettivi”, ma questa questione merita specifici approfondimenti, che qui rimandiamo ad altro intervento.
La “censura” cinematografica e l’anarchia del porno su web
Si segnala che il decreto-legge interviene anche su altra questione ancora, delicata assai, qual è il sistema della “revisione delle opere audiovisive”, un tempo detto “censura cinematografica”, a tutela dei minori. È questione complessa, e la relazione tecnica spiega come un deficit di… “sociologi” disponibili a far parte delle commissioni ministeriali (!) abbia vanificato il funzionamento delle stesse. La questione oscilla tra il ridicolo ed il surreale, e ci torneremo: è incredibile cotanta attenzione (e urgenza, poi?!) su una questione che appare veramente insignificante, a fronte dell’assolutamente incontrollato accesso dei minori ai flussi di pornografia su web, che continua ad avvenire nel silenzio dei più, Agcom in primis (Consiglio Nazionale degli Utenti – Cnu incluso, Comitato Media e Minori incluso, etc.), con la connivenza dormiente dell’Autorità Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza. Ancora una volta, si pensa alla pagliuzza nell’occhio, ignorando la trave…
Va poi osservato che, poche ore prima dell’inizio del Consiglio dei Ministri di ieri, è la stessa Sottosegretaria Lucia Borgonzoni a provocare una polemica nei confronti degli alleati di governo, e nuovamente su tematica culturale: altra curiosa coincidenza e inedita coreografia.
La Sottosegretaria contesta il Ministro
Lucia Borgonzoni – fiduciaria del leader leghista – è infatti intervenuta sulla controversa riforma del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e le sue parole suonano come un attacco diretto ed esplicito al suo Ministro.
Alle 16.45, le agenzie battono: “la riorganizzazione del Mibac e la riforma del codice Beni Culturali stanno suscitando un malcontento generale in tutte le categorie coinvolte, segnale che ci impone una necessaria riflessione sulla opportunità di avviare una revisione profonda dei testi che evidentemente non sembrano essere il frutto di un adeguato confronto con tutte le parti interessate. Ad esprimere il disagio non sono ‘solo’ gli Enti Museali autonomi, le Regioni, gli Enti Locali, ma anche i sindacati, preoccupati per questa riorganizzazione della struttura”. In sostanza, la Sottosegretaria accusa il Ministro di non essersi “confrontato” con gli “stakeholder”. E su questo concetto insiste: “le maggiori criticità sono chiaramente connesse ad una linea di azione che torna a centralizzare prerogative e competenze oggi affidate alle istituzioni sul territorio e che vuole aggregate in maniera verticale prerogative e competenze che oggi sono distribuite nel Ministero in una forma certamente da rivedere, ma al contempo più equilibrata rispetto alla proposta attuale. Alla luce di questa contrarietà generale, faccio appello perché entrambi i testi vengano riconsiderati attraverso un ampio confronto che possa permettere alle parti in causa di arrivare ad una soluzione maggiormente condivisa”.
Nel suo piccolo (…), una dichiarazione di guerra.
Coglie al balzo la palla, la parlamentare del Partito Democratico Anna Ascani (capo gruppo in Commissione Cultura di Montecitorio), che sostiene tranchant che “quello del Sottosegretario Borgonzoni è un commissariamento a tutti gli effetti. Il Ministro Bonisoli non ha più agilità politica e la sua riforma è tutta da rifare. Se avesse un minimo di dignità, questa sera dovrebbe presentarsi dimissionario a palazzo Chigi”.
Il Ministro grillino Alberto Bonisoli, tace, ovvero non commenta.
In serata, una reazione pacata, ma anonima, degli alleati, affidata all’Ansa, che scrive (che precisa che apprende “da fonti M5S”): “stupisce la posizione della Lega sul decreto di riorganizzazione del Mibac, approvato la scorsa settimana in Consiglio dei Ministri, anche alla luce del fatto che questa posizione arriva successivamente alla decisione collegiale presa in Cdm. Ma quale assenza di concertazione? C’è stata eccome. La riorganizzazione del Mibac è frutto di un lungo percorso durato diversi mesi e di un confronto con tutti i soggetti coinvolti”.
Naturale che sui quotidiani di questa mattina emerga la parola “lite”.
Come dire?! Sembrerebbe che una materia “minore” – almeno nell’agenda politica cui siamo stati fin qui abituati – divenga la cartina di tornasole di una alchimia sempre più instabile e problematica, effervescente ed esplosiva.
Il latente “scontro” tra i due alleati di governo si scatena su una questioncella certo non prioritaria, qual è la riforma del Mibac, rispetto all’agenda “macro” della maggioranza?! Da non crederci. Prove tecniche di conflitto in fase di scatenamento?! Schermaglie come quelle – ci si consenta la battuta ironica (e sappiamo che c’è ben poco da scherzarci sopra) – tra Usa ed Iran?! La cultura come un… drone che invade territori?
In conclusione, viene però da pensare che “la cultura” sia pretestualmente oggetto di una strumentalizzazione conflittuale: sacrificata, ancora una volta, sull’altare di una politica che non le assegna l’attenzione strategica, approfondita e ponderata, che invece merita.
Clicca qui, per leggere l’articolo 3 del decreto-legge (testo e relazione illustrativa) “Misure urgenti in materia di beni e attività culturali”, approvato dal Consiglio dei Ministri il 26 giugno 2019.