In principio furono Honoré de Balzac, Alexandre Dumas, Carlo Collodi e James Joyce; ma procediamo con ordine, e partiamo dalla fine: cosa spinge, nel duemilaquindici, autori affermati, registi di grido e potenti imprese audiovisive a dedicarsi anima, corpo e portafogli alla produzione di serie televisive?
La rubrica EntARTainment, ovvero libere riflessioni sull’economia dei media e della creatività tra nuovi linguaggi, mercati globali e moderne fruizioni. A cura di Bruno Zambardino Docente di Economia del Cinema e dello Spettacolo alla Sapienza e Direttore Osservatorio Media I-Com, in collaborazione con Armando Maria Trotta, autore cinematografico. Per consultare gli articoli precedenti clicca qui.Adesso possiamo tornare ai nomi altisonanti che ci hanno introdotto alla lettura di questo articolo. Loro, e non solo loro (Robert Louis Stevenson, Théophile Gautier, Emilio Salgari, Gustave Flaubert, Fëdor Dostoevskij) furono accomunati da una semplice intuizione che il mondo dell’audiovisivo riscopre a distanza di duecento anni e che spaccia per sua, in maniera più o meno naïf, in maniera più o meno “onesta”.
Il milleottocentotrentasei vide nascere l’ennesimo quotidiano francese all’ombra della monarchia di luglio. Il nome del quotidiano in questione era La Presse, un giornale che non differiva molto dai principali competitors dell’epoca ma che, inaspettatamente ed in brevissimo tempo, riuscì ad affermarsi sul panorama editoriale d’oltralpe grazie ad un’idea tanto semplice quanto geniale, sia dal punto di vista del marketing (come diremmo oggi) sia dal punto di vista narrativo: su La Presse furono pubblicati i primi romanzi d’appendice.
L’idea di Émile de Girardin, fondatore del journal di cui stiamo discorrendo, fu approssimativamente questa: prendere una storia, un romanzo “classicamente” concepito, frammentarlo in capitoli, stralci, sezioni, e pubblicarlo periodicamente sulle pagine del quotidiano. Dedicare alla pubblicazione degli episodi un giorno della settimana specifico e un’impaginazione standard (spesso relegata agli ultimi fogli del giornale) per donare al lettore la sensazione di avere un piacevole appuntamento fisso con i personaggi di una storia che non si offre già conclusa, ma che muta e cresce assieme al fruitore, che lo accompagna nei suoi giorni trascorsi in trepidante attesa dei prossimi avvenimenti.
Ring any bells? Esatto, succede lo stesso ai giorni nostri! Da Happy Days ad House of Cards, la serialità è entrata a far parte delle nostre vite e, proprio come i personaggi dei feuilleton o dei penny dreadful, alcuni protagonisti di questi racconti televisivi hanno influenzato la cultura di massa ed il nostro immaginario. Molte persone non riusciranno a dare un volto al nome di Henry Winkler; ma si illumineranno citando quello di “Fonzie” (che poi, sono la stessa persona!). Ciononostante, le serie televisive, le fiction, sono state considerate lungamente (a torto o ragione) figlie di un dio minore e solo adesso, avendone percepito il potenziale sia economico che narrativo, questi mondi vengono indagati con maggior interesse e attenzione da professionisti che possono vantare una carriera cinematografica seria e “ortodossa”. Vedi il caso di Woody Allen, arruolato da Amazon o in patria del premio Oscar Paolo Sorrentino alle prese con una serie commissionata da Sky.
Ciò premesso e considerando un metodo di distribuzione e fruizione dei prodotti audiovisivi incredibilmente mutato per far fronte alle nuove esigenze dettate dal pubblico e da altre contingenze (pirateria, crisi dell’industria, surplus dell’offerta, fruizione in mobilità), perché non ricercare nel passato la soluzione ad un problema attuale come la desertificazione delle sale?
Proviamo a ragionare come un de Girardin 2.0.: strutturo una storia unitaria ma divisibile in tre o quattro episodi di una durata non convenzionale: non adotto né il metraggio/pezzatura delle classiche fiction né quello dei film veri e propri e, se mi va bene, col supporto della comunità artistica, creo un genere altro, innovativo, caratteristico; organizzo la produzione dell’opera prevedendo non qualche settimana di girato ma qualche mese, quel tanto che basta ad avere quattro ore effettive di prodotto audiovisivo; programmo la distribuzione theatrical in modo che, a cadenza mensile o bimestrale, il mio “lunghissimometraggio” approdi nelle sale e ne incoraggio la fruizione attraverso metodi promozionali, carnet di biglietti o altre agevolazioni economiche con il prezioso supporto dei social media. Sperando che serva a fidelizzare il pubblico, magari, il primo episodio lo vendo ad un euro!
Questo ragionamento, forse, potrebbe costruire la fortuna di un produttore (o meglio di una cordata di produttori considerato il budget più elevato) particolarmente scaltro e resiliente, oltre che a risollevare le sorti delle sale ormai sempre più in affanno. Se è vero che “la televisione vive di cinema ed il cinema muore di televisione” è ancora più giusto chiederci come le lezioni che il mondo della televisione ci ha impartito tanto duramente possano giovare alla settima arte, e questa proposta potrebbe essere un buon punto di partenza.
Insomma, perché non “rischiare” di creare con il supporto di una classe produttiva più coraggiosa una nuova generazione di Joyce, di Collodi, di Dumas, magari un nuovo genere cinematografico e, forti delle tecnologie in nostro possesso, venire incontro alle nuove preferenze dell’audience?
* Bruno Zambardino, Docente di Economia del Cinema e dello Spettacolo alla Sapienza e Direttore Osservatorio Media I-Com
* Armando Maria Trotta, autore cinematografico