Riportiamo di seguito l’intervento del Commissario Agcom, Antonio Martusciello, alla tavola rotonda ‘CIAK SI RIFORMA? Una legge di sistema per rafforzare il settore audiovisivo’, organizzata da I-COM, Istituto per la competitività, che si è tenuta a Roma.
Buonasera e un ringraziamento ai rappresentanti di I-COM per aver organizzato questa interessante occasione di confronto e dibattito su un tema rilevantissimo per l’industria culturale italiana. La relazione illustrativa del disegno di legge cita l’avvio di un’indagine conoscitiva da parte dell’Autorità sul settore della produzione audiovisiva e la sua finalità di acquisire elementi a supporto dell’attività istituzionale anche ai fini dell’attuazione delle norme. Nel frattempo l’indagine è stata conclusa e resa pubblica: le risultanze hanno consentito di far emergere con precisione e chiarezza le virtù e i limiti del settore.
Ritengo che tali esiti potranno essere molto utili nel processo di legislazione posto in essere dal disegno di legge. Limiti e virtù del settore sono inquadrabili in due distinti ambiti: il primo di natura economica legato alla struttura del mercato e il secondo di natura giuridica legato ad un apparato normativo che si è rivelato decisamente inadeguato. Il risultato è che a livello strutturale nel settore della produzione audiovisiva si registrano delle eccellenze mondiali ma anche una eccessiva dipendenza verso i broadcaster che limita lo sviluppo autonomo delle imprese.
Evidenze dell’IC per la filiera del cinema
Partiamo dalle dimensioni economiche: vorrei concentrarmi specificatamente sul cinema visto il panel attuale, ma le evidenze sono valide per tutti i generi dell’industria nazionale dell’audiovisivo.
Il valore dell’investimento da parte dei broadcaster nel settore della produzione cinematografica nazionale ed europea indipendente è valutabile in Italia attorno ai 177 milioni per il 2013 e a 162 milioni per il 2014. Il dato italiano risulta superiore a quello spagnolo (73 milioni) e persino a quello del Regno Unito, le cui dimensioni del mercato televisivo sono per giunta molto più ampie del nostro. Solo la spesa dei broadcaster francesi risulta superiore (280 milioni), ma oltre alle maggiori dimensioni del mercato, occorre tenere presente anche un quadro normativo molto diverso e favorevole al cinema, con un fortissimo contributo del maggiore operatore di televisione a pagamento.
L’investimento è senza dubbio realizzato in via prioritaria da parte del servizio pubblico: circa la metà dei 162 milioni in opere cinematografiche europee di produttori indipendenti è realizzata da Rai. Se consideriamo tutte le opere (anche extra-europee), secondo il bilancio 2014, Rai ha investito oltre 100 milioni di euro in cinema.
Questi dati consentono di affermare come il livello di investimento da parte del settore televisivo sia accettabile, anche se sicuramente migliorabile. La questione principale, a mio modo di vedere, risiede nella eccessiva frammentazione del mercato e nella dimensione delle aziende. Attualmente le società di produzione italiane risultano ammontare a circa 175 di cui solo alcune sono dimensionate e strutturate per competere nei mercati internazionali
Con riguardo alle strutture patrimoniali delle società di produzione si registra da parte di alcune un’elevata capacità di capitalizzare i diritti delle opere che producono. Non a caso, le prime 4 società, tra le 50 individuate nell’analisi condotta nell’indagine, per valore di immobilizzazioni immateriali sono essenzialmente produttrici di opere cinematografiche. A tale situazione corrisponde una maggiore solidità patrimoniale da parte di quelle società di produzione cinematografica che hanno saputo diversificare la propria attività.
La restante parte del mercato cinematografico, in analogia con l’universo di riferimento dell’intero settore dell’audiovisivo, è caratterizzato, oltre che dalla strutturale sottocapitalizzazione anche da una minore partecipazione agli investimenti da parte delle stesse aziende. Sono molto limitati i casi in cui un’impresa decida di assumersi il rischio economico, oltreché finanziario, di una produzione: quasi tutte le opere, soprattutto oltre una soglia di investimento quantificabile in circa 1 milione di euro, vengono avviate solo se esiste una pressoché totale copertura dei costi di produzione mediante impegni di acquisizione dei diritti da parte dei broadcaster o di distributori nazionali o internazionali, o forme di accesso ai contributi statali. Il modello di copertura del rischio economico influenza anche le modalità e le tempistiche di finanziamento dell’opera cinematografica, nonché il momento di ricerca dei partner.
Sulla struttura del mercato, incide comunque anche la particolarità del ciclo produttivo, caratterizzato da un’alta intensità di capitale. Soprattutto nelle fasi della pre produzione e della produzione, il fabbisogno finanziario da parte del produttore è rilevante. Prima di avviare qualsiasi fase produttiva o di sottoscrivere impegni contrattuali vincolanti di acquisizione diritti, contratti artistici e produttivi, il produttore deve garantirsi un sistema di flussi finanziari adeguato ai fabbisogni ed alle diverse fasi produttive.
Con tale assetto assumono particolare rilevanza le fonti di finanziamento a cui il produttore può ricorrere, siano esse interne all’azienda (tipicamente riconducibili a capitali da autofinanziamento dei soci) o esterne. Quest’ultima via, considerando la strutturale sottocapitalizzazione sia delle aziende produttrici italiane che europee, è largamente la più seguita. Le fonti finanziarie esterne sono differenziate in relazione alle garanzie prestate sui crediti richiesti, alla durata, all’ente erogatore e alle diverse fasi di erogazione dei finanziamenti stessi.
Secondo dati raccolti dall’Autorità, con riguardo all’articolazione delle fonti di finanziamento dei film italiani prodotti, il 61% del capitale è apportato da soggetti privati: in questa categoria sono ricompresi gli investimenti dei broadcaster. Complessivamente i fondi pubblici nazionali coprono il 18% del costo industriale dei film prodotti nell’anno. Un significativo apporto da segnalare, poi è quello derivante dagli investitori esterni alla filiera cinematografica che beneficiano del tax credit esterno, pari al 15% dei costi complessivi.
Per quanto riguarda le modalità di negoziazione dei diritti, occorre considerare che la digitalizzazione ha condotto all’ampliamento della tradizionale attività delle emittenti televisive verso nuove piattaforme e nuove modalità di valorizzazione dei contenuti, ad esempio nell’ambito di offerte non lineari. Sfruttare opportunità dovute ai nuovi scenari tecnologici per regolare, nel rispetto del nesso di proporzionalità delle somme investite, il regime dell’assegnazione dei diritti tra broadcaster e produttori è quindi una delle priorità.
Il quadro economico e strutturale fa emergere la necessità di agevolare un più elevato grado di concentrazione del settore sul lato dell’offerta, al fine di irrobustire i soggetti presenti e aumentarne la competitività con particolare riferimento ai mercati internazionali.
In questo senso non possono che essere apprezzati i contenuti del disegno legge volti ad indirizzare ai produttori strumenti finanziari efficaci e ad allargare il sostegno a tutte le produzioni audiovisive indipendentemente dal genere. Mi riferisco in particolare all’istituzione del fondo per lo sviluppo degli investimenti nel cinema e al potenziamento e affinamento del tax credit. L’obiettivo di tali disposizioni deve essere mirato al medio e lungo periodo, le valutazioni sul breve periodo sono troppo influenzate da variabili stagionali quali il film o la serie televisiva di successo. Quindi il risultato dell’azione proposta dal disegno legge dovremo misurarlo alla luce della auspicata futura e costante presenza delle produzioni nazionali sui mercati internazionali, della capacità di affiancare come co-produttori i nuovi player presenti (pensiamo tutti alle serie televisive di Netflix) e di svincolarsi dalla dipendenza del mercato televisivo nazionale.
Limiti delle attuali regole per la tutela della produzione
Ma il problema principale, risiede sull’apparato normativo che sta a monte dell’intero settore e che ha contribuito ad amplificare i limiti che ho appena descritto. Occorre riflettere sul fatto che le regole che disciplinano la promozione delle opere audiovisive europee e di produttori indipendenti sono state scritte un quarto di secolo fa (era il 1989 con la direttiva “Tv senza frontiere”), quando in ogni Paese c’erano 5-10 canali televisivi generalisti. Attualmente, in Italia l’offerta è cresciuta esponenzialmente grazie al digitale terrestre, con un’offerta generalista ormai ridimensionata e una spiccata specializzazione dei palinsesti in più temi anche di nicchia. Un dato emblematico riguarda i canali tematici al cinema o ai bambini quantificabili ormai nell’ordine delle decine tra canali editi sul digitale terrestre e sul satellite, in chiaro e a pagamento. Simili cifre sono riscontrabili negli altri ambiti tematici dove sono nati nuovi generi.
E’ evidente che questa moltiplicazione dell’offerta deve tradursi in nuove opportunità anche per l’industria nazionale, cosa che ancora stenta ad avvenire. E’, tuttavia, altrettanto evidente che questo scenario profondamente ampliato dal digitale, e del web, necessita di regole nuove e diverse rispetto a quelle dell’analogico, perché determinati meccanismi di investimento e di programmazione, pensati per pochi canali generalisti analogici, hanno un impatto completamente diverso per tanti canali tematici, e finiscono con il risultare poco o per nulla sostenibili e inefficaci per l’industria culturale che si intende tutelare.
Non va, infatti, trascurato il fatto che l’aumento del numero di canali e quindi di potenziale sbocco distributivo dei prodotti, non significa necessariamente un aumento del consumo, bensì comporta, come avvenuto nella maggior parte dei casi, una elevato livello di frammentazione dell’audience. Tale fenomeno va letto dalla parte degli inserzionisti pubblicitari che rappresentano ancora la principale fonte di finanziamento del sistema televisivo. Se da un lato la frammentazione garantisce una maggiore targetizzazione, dall’altro comporta risultati di pubblico che non rendono più competitivo il mezzo televisivo quale veicolo di determinate campagne pubblicitarie. In termini economici sono abbassate le barriere di ingresso e sono premiate le economie di scala, ma l’elevato grado di competizione che si è creato ha ridotto i margini di guadagno ed limitato la redditività, con un inevitabile effetto sugli investimenti. Tale effetto si è riverberato simmetricamente sull’industria dell’audiovisivo.
Sia l’indagine che l’attività ordinaria dell’Autorità hanno evidenziato un limite del sistema delle sotto-quote rispetto alle finalità di tutela del cinema nazionale. I profili maggiormente sensibili spaziano dalla definizione di opera cinematografica di espressione originale italiana, alla certificazione di tale status, sino ad arrivare al sistema di valorizzazione delle relative sotto quote. Con riferimento alla loro qualificazione, è stata rilevata una non coincidenza di alcuni requisiti, primo fra tutti la lingua italiana, con le attuali dinamiche di mercato. I film italiani di maggior successo e quindi esportabili oltre confine con conseguente allungamento del loro ciclo di sfruttamento, sono prodotti in lingua inglese.
Nell’esperienza dell’Autorità, l’articolato sistema di sotto-quote a favore delle opere cinematografiche di espressione originale italiana ha dato luogo ad un ampio ricorso a istanze di deroga. Si pensi, a questo proposito, al disallineamento tra l’obbligo di programmazione, imposto ai soli canali tematici cinema e generalisti, e quello di investimento, gravante invece su tutti i soggetti, senza distinzione alcuna di genere. Per cui se un soggetto non edita né canali generalisti né canali tematici di cinema, si trova comunque obbligato ad investire, pur non avendo nessun obbligo – così come del resto nessun interesse – a programmare quel prodotto. Occorrerebbe quindi un ripensamento al fine di inserire in tale tutela tutti i generi.
Un ulteriore limite della normativa comunitaria e nazionale è il favor concesso ai video on-demand che al momento non risulta giustificato da nessun elemento.
Gli Over the Top e il level playing field
Un ulteriore problema che riguarda direttamente i broadcaster e quindi anche i produttori beneficiari dei investimenti risiede nel mancato inserimento nel perimetro normativo dei c.d. operatori over the top. L’attuale formulazione della Direttiva europea sui servizi di media audiovisivi determina delle asimmetrie normative/regolamentari tra operatori televisivi, sottoposti alle prescrizioni della stessa, e altri soggetti che veicolano i propri contenuti via internet quali i c.d. fornitori di servizi over-the-top. Da un punto di vista sostanziale, tale mancata inclusione genera un danno in termini di sottrazione di risorse da investire nella produzione di contenuti audiovisivi. Al riguardo, appare necessario individuare un quadro armonizzato volto a ristabilire il level playing field tra i soggetti che attualmente forniscono contenuti audiovisivi con diversi regimi di responsabilità. Ciò è in linea con le soluzioni già adottate in alcuni Paesi membri, che prevedono l’imposizione di un prelievo di scopo sui ricavi generati da servizi ancorché i soggetti che li fruiscono siano stabiliti al di fuori del territorio nazionale. Rileva in tale contesto il principio del paese di stabilimento, previsto attualmente dalla direttiva, che consente ad operatori che pur hanno stabilito la loro sede fuori dall’Europa, o in un altro Stato membro di rivolgersi agli utenti di un certo Stato membro offrendo servizi in competizione con quelli offerti da operatori “nazionali”, rispondendo però alla legislazione – di regola più favorevole – del Paese dove hanno stabilito la propria sede legale.
Spunti per decreti attuativi del ddl Cinema
Come evidenziato dall’indagine condotta dall’Autorità, tutte le modifiche nei meccanismi che disciplinano le quote di programmazione ed investimento necessitano un ripensamento, e ci si augura che l’azione intrapresa dal Governo con il DDL Disciplina del cinema, dell’audiovisivo e dello spettacolo del 28 gennaio 2016, possa andare in questa direzione, specialmente con riferimento a quanto previsto dall’art. 31 che intende modificare direttamente tali norme. Questo articolo delega al Governo l’adozione di decreti legislativi per il riassetto delle disposizioni di disciplina degli strumenti e delle procedure attualmente previsti dall’ordinamento in materia di promozione delle opere audiovisive europee da parte dei fornitori di servizi media audiovisivi, sia lineari che non lineari. La formulazione attuale dell’articolo reca principi e criteri generali assolutamente condivisibili che lasciano però un ampio spazio alla discrezionalità.
I Decreti andranno ad inserirsi all’interno del processo di refit della direttiva sui servizi di media audiovisivi, la cui proposta legislativa è attesa per fine mese. Il sistema delle quote è uno dei 4 cardini individuati dalla Commissione europea per il processo di revisione e l’indirizzo che traspare dai lavori preparatori è un aumentato grado di armonizzazione del testo.
A mio avviso è opportuno che nell’emanazione di questi decreti si tenga conto dei seguenti aspetti:
- Adottare regole generali che siano compatibili con le strutture aziendali dei broadcaster e con il relativo ciclo degli investimenti. Il testo della direttiva menziona come base imponibile per gli investimenti il c.d. programming budget e dal punto di vista della contabilità regolatoria è sicuramente una voce più corretta rispetto ai ricavi. Tuttavia prescinderei da una diatriba quasi filosofica su ricavi e budget di programmazione per focalizzare l’intervento su strumenti di facile implementazione per i soggetti obbligati e di agevole misurazione per l’Autorità. La formulazione ora in vigore pone diversi problemi nell’applicazione degli obblighi di investimento specialmente per i soggetti che hanno ricavi da televisione a pagamento. Il riferimento normativo – che chiede di limitare il calcolo della base imponibile ai soli introiti derivanti da attività editoriali proprie e di carattere non sportivo – contrasta con le modalità di rendicontazione delle emittenti che hanno un’unica voce di “ricavi da abbonamento” e con la struttura della loro offerta basata su un mix di canali di cui hanno la responsabilità editoriale e canali terzi. Ciò rende di difficile attuazione i meccanismi di controllo che rischiano di doversi basare su dati empirici, a meno di non voler imporre costose soluzioni quale la separazione contabile a questo tipo di operatori. La soluzione che suggerisco è l’individuazione di una voce di imponibile (sia essa legata ai costi o ai ricavi) neutrale per tutti i diversi operatori, con meno eccezioni e subordinate rispetto all’attuale.
- Occorre tenere conto della pluralità di offerte tematiche e di nicchia del panorama televisivo, al fine di imporre obblighi di programmazione e di investimento a tutela dell’industria nazionale che siano efficaci per tutti i diversi soggetti. In tal senso la nozione di opera di espressione originale italiana andrebbe ampliata senza alcun vincolo di genere.
- Introdurre possibili meccanismi di flessibilità anche collegati a soglie minime di share o fatturato, in modo che gli investimenti siano valutati su un arco temporale maggiore di un anno, al fine di consentire un efficace meccanismo di recupero dei minori investimenti eventualmente effettuati in una singola annualità ed una più corretta valutazione del contesto finanziario e del ciclo produttivo, in linea con la ratio sottesa alla introduzione di un simile obbligo, soprattutto se collegato ai ricavi dei broadcaster. L’attuale sistema sanzionatorio risulta gravemente inefficace poiché l’entità delle multe, fissate per legge dai 10 mila ai 250 mila euro, non è proporzionata rispetto all’entità di violazioni nell’ordine dei milioni di euro. Tra l’altro il sistema di recupero dei mancati investimenti negli anni successivi consentirebbe di veicolare queste entrate nel settore dell’audiovisivo, contrariamente a quanto avviene con le attuali sanzioni, la cui efficacia è da rinvenire, semmai, solo a livello reputazionale. Il recupero degli investimenti genererebbe quindi un circolo virtuoso per l’intero sistema della produzione. Per altro, è opportuno sottolineare che la maggiore flessibilità consentirà di adottare criteri più stringenti per la concessione di giustificazioni o deroghe.
- Un altro aspetto critico riguarda i cosiddetti produttori indipendenti. La nozione attuale individuata dal legislatore tiene conto di aspetti legati alla proprietà e all’output produttivo ma tralascia altri indicatori di indipendenza del produttore che possono prescindere da questi attualmente elencati, quali la gestione dei diritti secondari o la governance dell’impresa. Un’applicazione troppo rigida degli attuali criteri rischia paradossalmente di ingessare il settore.
- Per favorire la circolazione delle opere e la loro esportazione occorre agevolare lo sfruttamento dei diritti secondari da parte dei soggetti, siano essi produttori o emittenti, che caso per caso sono più idonei a valorizzare lo sfruttamento delle opere. Per fare questo occorre superare le attuali barriere tra emittenti e produttori ed incentivare meccanismi di self e co-regulation tra gli stessi, ad esempio favorendo il ricorso alle negoziazioni tra le parti a tutti i livelli, sul modello di quanto avviene nel Regno Unito, basato sul nesso di proporzionalità intercorrente tra lo sfruttamento dei diritti e la effettiva partecipazione alla produzione dei contenuti. A tal fine, ritengo opportuno privilegiare forme di investimento virtuose da parte dei broadcaster, quali l’acquisto o la co-produzione, anche allo scopo di pervenire ad una distinzione più chiara tra le attività di produzione e quelle di mera realizzazione d’opera, che risulterebbe coì utile alla corretta ripartizione e gestione dei diritti secondari di sfruttamento delle opere audiovisive. In questo senso può essere implementata la soluzione già individuata dal decreto MISE-BIBACT sulle opere di espressione originale italiana che tutela particolarmente la forma di investimento del pre-acquisto.
- L’attuale testo dell’ 44, comma 5, tuttavia, demanda unicamente a procedure di autoregolamentazione la disciplina dei rapporti produttore/broadcaster, attribuendo all’Autorità un mero compito di verifica ex post della coerenza di tali procedure con quanto genericamente stabilito dalla legge (gli anzidetti criteri per la limitazione temporale di utilizzo dei diritti secondari e la proporzionalità di tali diritti alla partecipazione finanziaria delle parti a ciascun progetto). Auspico una modifica che renda più incisivo il compito dell’Autorità e che preveda l’attribuzione ad essa, del compito di predisporre delle Linee Guida che assolvano ad una funzione di indirizzo, individuando i criteri cui i rapporti negoziali tra emittenti e produttori devono uniformarsi. I c.d. terms of trade destinati a regolare i rapporti tra le parti e a definire i termini di negoziazione, nonché gli schemi contrattuali che ne derivano, dovrebbero essere redatti in conformità con le Linee Guida. All’Autorità dovrebbe dunque essere attribuita la funzione di vigilare sulla conformità dei terms of trade e degli schemi contrattuali alle proprie Linee Guida e di dirime le eventuali controversie. La best practice di questo modello è rappresentata proprio dal caso inglese e di quanto previsto in particolare dal Communications Act laddove esso attribuisce ad Ofcom competenze dirette e specifiche intese a regolare i rapporti negoziali tra emittenti e produttori.
- Sono sicuramente di parte, ci tengo però a sottolineare l’importanza del ruolo dell’Autorità sia quale soggetto tenuto alla verifica delle norme che quale “mediatore” nelle procedure di co-regolamentazione tra emittenti e produttori. La valenza dell’Autorità ha una duplice natura: tecnica e politica. Quella tecnica risiede nell’expertise già accumulata negli anni sulla materia, quella politica nel ruolo terzo ed indipendente delineato dal legislatore, che, analogamente a quanto avviene in altri paesi (Regno Unito su tutti) la rende il soggetto ideale per questo tipo di ruolo, ferme restando le necessarie, opportune e doverose interlocuzioni con le altre amministrazioni competenti, siano esse Ministeri, pendo a MIBACT e MISE su tutti, o altre autorità indipendenti, come ad esempio l’Antitrust.
- Ritengo ormai consolidato il ruolo dei video on-demand, sia come servizio offerto dai broadcaster tradizionali che da parte di nuovi player. In questo caso è giusto operare una distinzione. Un conto sono i servizi on-demand che affiancano e arricchiscono le offerte dei broadcaster, come ad esempio Premium play rispetto a Mediaset Premium, un altro i servizi on-demand puri come ad esempio Netflix. Nel primo caso occorre pensare ad un sistema di obblighi che tenga conto della natura dell’editore che fornisce contenuti in entrambe le modalità, ad esempio mediante un solo obbligo di investimento a livello di gruppo. Nel secondo dovrebbe invece essere richiesto di contribuire alla promozione della produzione audiovisiva ed indipendente come i canali lineari, senza quote minori quali quelle attualmente previste dal legislatore. Un ulteriore aspetto consiste nel tenere conto della dimensione transnazionale dei principali gruppi editoriali, si pensi a Sky o a Vivendi nel momento in cui si impongono obblighi di investimento in singoli mercati nazionali.
- Infine per quanto riguarda gli over the top che risiedono – letteralmente – al di fuori del perimetro geografico e normativo dell’Unione Europea, la soluzione più concreta, in attesa che arrivi una risposta dalle istituzioni comunitarie atta a creare finalmente un level playing field, è una eventuale tassa di scopo sui ricavi generati nel paese, simile a quella attualmente in adozione in Germania.
L’Autorità ha già avuto modo di esprimere queste valutazioni in una dettagliata segnalazione al Governo successiva agli esiti dell’indagine conoscitiva, spero quindi che occasioni di dialogo come questa possano fungere da ulteriore stimolo verso l’adozione delle migliori soluzioni per il settore dell’audiovisivo.