Non una, ma due fabbriche. La Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC), il maggior produttore al mondo di semiconduttori, ha annunciato la costruzione di un nuovo impianto in Arizona, negli Stati Uniti. L’investimento, che si somma all’attuale costruzione di una prima fabbrica iniziata nel 2021 (e non ancora completata), sarà di 40 miliardi di dollari.
Ieri si è svolto l’attesissimo incontro tra Tim Cook, Joe Biden e i vertici di TSMC tra cui il fondatore Morris Chang a Phoenix, in Arizona. Il presidente degli Stati Uniti durante la visita al cantiere del nuovo stabilimento Usa dell’azienda di Taiwan ha dichiarato che “Quanto sta accadendo in Arizona avrà ripercussioni in tutto il Paese, e anche a livello globale”.
Alla visita del Presidente hanno partecipato anche il governatore dell’Arizona, il repubblicano Doug Ducey, insieme alla governatrice eletta, Katie Hobbs. Inoltre, al seguito del presidente sono arrivati anche gli amministratori delegati di Apple, Micron e Nvidia: Tim Cook, Sanjay Mehrotra e Jensen Huang. Secondo il quotidiano “Nikkei”, Apple e Nvidia saranno i primi due clienti del nuovo stabilimento di TSMC in Arizona.
Una volta aperti, gli impianti di TSMC produrranno una quantità sufficiente di chip per coprire la domanda annuale statunitense, ovvero 600.000 wafer, secondo Ronnie Chatterji, vicedirettore ad interim per le politiche industriali del National Economic Council, con responsabilità di supervisione sull’attuazione della legge sui chip, che ha parlato con la Cnbc.
Perché gli Stati Uniti stanno investendo così tanto sui chip?Soltanto il 12% prodotto in casa negli Usa
L’investimento di TSMC è uno dei maggiori investimenti stranieri nella storia degli Stati Uniti e il maggior investimento straniero in Arizona. La pandemia di coronavirus ha messo in luce la dipendenza statunitense dalla produzione cinese, con i lockdown che hanno provocato una carenza mondiale di chip, il cui utilizzo spazia dai computer agli smartphone, dai forni a microonde ai dispositivi medici, fino alle autovetture.
L’investimento da parte dell’azienda Taiwanese è stato favorito dal CHIPS Act, il piano di Biden per la ricerca scientifica, l’innovazione tecnologica e la produzione di semiconduttori: è diventato legge ad agosto e vale 280 miliardi di dollari in tutto, di cui 52,7 destinati alla manifattura di chip negli Stati Uniti. La legge prevede anche un credito d’imposta sugli investimenti del 25 per cento per le spese nelle attrezzature.
Soltanto il 12% del fabbisogno americano di chip viene prodotto a li vello domestico, rispetto al 37% degli anni ’90, e gli Usa non hanno le competenze per produrre in casa le componenti più sofisticate su ampia scala.
Intel cerca di tenere il passo, ma le stelle nascenti dei chip sono asiatiche: Samsung Electronics, che lo scorso anno ha superato proprio Intel come primo produttore di chip per ricavi, e Taiwan Semiconductor Manufacturing (TSM), che supererà Intel nel 2023.
I Governi di Cina, Giappone e Corea del Sud hanno tutti lanciato una campagna destinata a nazionalizzare il più possibile la produzione di chip, con incentivi del 30% in più rispetto agli Usa sui costi per mettere in piedi uno stabilimento in patria. Queste sovvenzioni hanno contribuito a spostare in Asia la produzione delle componenti più sofisticate. Anche l’Europa sta lavorando ad un nuovo pacchetto di incentivi per i produttori di chip.
Ma non solo: i chip sono un fattore geopolitico per contrastare la Cina
Non solo il fabbisogno domestico. Gli Usa stanno lavorando per incrementare la produzione di chip avanzati, facendo così in modo che la Cina non diventi troppo forte. Per farlo, vieta l’esportazione di componenti verso la rivale, come ha fatto bloccando le esportazioni di componenti a Huawei nel 2019.Nel 2020 gli Usa hanno redatto una lista nera di aziende, fra cui il primo produttore cinese Semiconductor Manufacturing International, e altre 60 aziende, nel novero delle aziende che rappresentano un rischio potenziale per la sicurezza nazionale. Quindi, nessuna esportazione e nessun accesso a macchinari per la realizzazione di chip sofisticati.
Il blocco delle esportazioni verso la Cina potrebbe però trasformarsi in un boomerang per i produttori Usa. Se la Cina diventerà totalmente autosufficiente sul fronte dei chip, a parte il danno economico per i fornitori americani di componentistica, smetterà alla fine di rivolgersi agli Usa. Il che impoverirà il settore americano dei chip e l’innovazione del paese.
L’unico modo per essere efficace sarebbe quello di convincere anche gli alleati a smettere di fornire componenti ai chip maker cinesi. Ma per ora non è andata così. Ad esempio, l’Olanda continua a fornire i suoi componenti alla Cina.
Nel frattempo la crisi non rallenta: calano i ricavi del mercato mondiale semiconduttori
Dopo un 2022 che dovrebbe chiudersi con un +4%, il mercato dei semiconduttori potrebbe entrare in una fase critica con l’anno nuovo. Secondo le ultime stime Gartner, nel 2023 i ricavi sono attesi diminuire tra il 3 e il 4%, passando dai 618 a 596 miliardi di dollari (contro precedenti stime più rosee di 623 miliardi di dollari).
Secondo Richard Gordon, Practice Vice President di Gartner, il possibile crollo delle entrate sarebbe dovuto al deterioramento dell’economia globale, al calo del reddito, all’indebolimento della domanda consumer, alla ridefinizione delle priorità di spesa di famiglie e imprese, alle tensioni geopolitiche sempre presenti e all’incertezza generale (l’Europa entrerà o no in recessione?).
Il problema, come ben abbiamo capito nel 2020 e soprattutto 2021, è che il mercato mondiale dei chip e dei semiconduttori è frammentato in varie fasi tutte altamente strategiche: dalle terre rare di cui il principale produttore/fornitore è la Cina alla produzione vera e propria di semiconduttori, in cui la Corea del Sud e Taiwan spadroneggiano, fino alla software industry che è in mano agli Stati Uniti.
Una catena del valore mondiale spezzettata e troppo vulnerabile ai conflitti che periodicamente esplodono tra gli attori in campo, in particolare tra Stati Uniti e Cina.