L’attesa cresce per sapere che cosa salterà fuori dal cilindro della Commissione a giugno sulla riforma della Direttiva sui servizi audiovisivi.
Nel frattempo i singoli Paesi si sono mossi in questi anni autonomamente, complice la circostanza che la Direttiva in vigore non impedisce di adottare norme più severe, trattandosi di un minimo comune denominatore necessario ma, a detta dei più, insufficiente.
A richiamare l’attenzione fra gli altri è il Belgio, tra i pochi a prevedere la figura del distributore di servizi audiovisivi, ossia quel soggetto che sulla propria rete fornisce ai clienti finali servizi media.
Nelle maglie della definizione sono finite piattaforme distributive per lo più telefoniche, le quali si sono viste assoggettate a una panoplia di regole come il controllo dei prezzi, la trasparenza, la tutela dei minori, la guida elettronica dei programmi, il contributo alla produzione audiovisiva e il must carry.
E gli Over the Top?
Niente da fare, sono sfuggiti alla rete definitoria perché difesi da due argomenti ormai classici.
Il primo è quello dello scopo principale della trasmissione di contenuti audiovisivi che qui difetta; il secondo, è invece il ben noto argomento del controllo editoriale, che sarebbe qui assente perché sostituito dall’automatismo dell’algoritmo.
Se i regolatori nazionali più di tanto non hanno potuto fare per risolvere il nòcciolo della questione – ovvero l’inclusione anche parziale del mondo OTT nella regolazione – vi è però un segnale incoraggiante, almeno per chi auspica questo sbocco, che proviene dalla Corte di Giustizia.
Nel caso C-374/14, deciso alla fine dello scorso anno, essa ha affermato il principio che video di breve durata che sono offerti come appendice di una testata giornalistica online ma non assolvono un ruolo ancillare o servente rispetto ad essa (tradotto: non c’entrano niente con le notizie del giornale) costituiscono un programma audiovisivo assoggettabile alle norme della Direttiva sotto la rubrica dei servizi on-demand, ancorché si riducano a mere clips.
Ora se i motori di ricerca o i siti come YouTube (per intenderci) in quanto tali sfuggono ancora a questa interpretazione, perché il loro scopo principale non è quello di fornire programmi sotto un controllo editoriale ex ante, non così accade quando gli stessi si spingono oltre il ruolo di piattaforme passive per assumere un ruolo di organizzazione dell’offerta audiovisiva, per quanto minimo esso possa essere.
Da questo punto di vista, la circostanza che i video siano di breve durata non è dirimente, afferma la Corte, per l’esenzione dalla qualifica di “programma”.
Rimane aperta la questione del controllo editoriale che va accertato nei fatti e non escluso a priori in ragione della autodefinizione del servizio.
Sono queste novità foriere di una svolta europea?
E’ alle viste il sospirato level playing field?
La Commissione annuncia un approccio “pragmatico”, ossia legato alla soluzione di problemi che si sono posti concretamente nel tempo. Pragmatico è un aggettivo certo migliore di dogmatico, ma è inferiore a sistemico, che per la verità dovrebbe prevalere quando si parla di regolazione continentale.
Non resta quindi che aspettare e vedere, sapendo che le pressioni su Bruxelles da ogni parte sono molto forti, proporzionate in fin dei conti alla portata della partita in gioco.