Pluralismo

Causeries. Il potere dei media e il mito della tecnologia democratica

di Stefano Mannoni |

La socializzazione democratica del potere comunicativo attraverso la tecnologia è un mito, coltivato da chi attraverso una selezione dell’agenda pubblica riproduce un’egemonia ferrea sulle masse

#Causeries è una rubrica settimanale sulle criticità dei mercati della convergenza e il loro rapporto con le grandi tematiche della regolazione, curata da Stefano Mannoni, professore di Diritto delle Comunicazioni presso l’Università di Firenze.
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Quando di fronte alla commissione sul pluralismo presieduta dal giudice Brian Leveson, Rupert Murdoch replicò a chi gli contestava il suo smisurato potere negando di averlo, molti ironizzarono.

Diceva il magnate “Io sono responsabile davanti al popolo britannico ogni giorno. Possono smettere di comprare il giornale: è come se quotidianamente dovessi presentarmi a un’elezione”.

Non viene forse da sorridere di fronte a un’affermazione così stentorea e implausibile?

Ebbene, sarebbe un errore.

Esiste infatti un importante filone di ricerca accademica che la pensa esattamente come Murdoch: il potere dei media non esiste.

La spiegazione di questa assenza viene data alla luce di alcuni paradigmi concorrenti.

Il primo è quello del consenso, ovvero: in un sistema di mercato i media competono fra di loro ed esercitano reciprocamente una pressione che neutralizza la loro dominanza.

Il secondo è quello del caos: i tradizionali gatekeepers non sono più in grado di esercitare un controllo efficace su flussi di notizie che provengono dalle fonti più disparate.

Il terzo è quello del decentramento: la produzione dei contenuti, delle notizie, si è spostata grazie alla tecnologia dal centro alla periferia.

Tutto a posto allora?

Des Freedman, professore di studi sui media presso la Goldsmith University di Londra (il saggio si intitola The Contradictions of Media Power, Bloomsbury, London, 2014) non è affatto d’accordo con questa analisi: il potere dei media non è affatto defunto, anzi.

Arriva a questa conclusione da una premessa diversa da quella di un Tim Wu, che adotta l’intuizione di Joseph Schumpeter del ciclo costruzione-distruzione del capitalismo.

Il suo punto di partenza è il concetto di contraddizione di Marx: il capitalismo è

animato da un costante impulso di innovare e creare; la sua è una rivoluzione permanente che trova nella tecnologia un potente strumento di destabilizzazione dell’esistente. Il suo equilibrio è strutturalmente instabile, precario.

Ma allo stesso tempo esso, il capitale, è indotto da un istinto altrettanto potente alla concentrazione e alla sua  legittimazione.

Orbene, i media si trovano proprio al centro di questa contraddizione: da una parte essi producono “senso comune” al servizio della legittimazione delle élites e dello status quo; ma dall’altra, trascinate dalla costante irrequietezza del capitalismo, ne assecondano attraverso il “buon senso” l’alterazione dell’equilibrio.

Quindi Freedman ci dice due cose importanti:

  1. non è affatto vero che la tecnologia digitale abbia disarticolato le gerarchia di potere e la sua concentrazione. I media restano fortemente oligopolistici, intrecciati con le élites che detengono l’autorità politica e il loro ruolo di intermediazione è ancora potentissimo. Insomma, quello della socializzazione democratica del potere comunicativo attraverso la tecnologia è nulla più di un mito accuratamente coltivato da chi attraverso una selezione dell’agenda pubblica – dove il silenzio su ciò che non si dice conta più di quello che si dice – riproduce un’egemonia ferrea sulle masse.
  2. D’altro canto però, proprio la contraddizione insita nel meccanismo di accumulazione del capitale apre importanti spiragli per avanzare la causa della riforma democratica dei media. Perché, spinto dalla sua pulsione verso la “rivoluzione permanente”, il capitale è intrinsecamente instabile; si aprono pertanto finestre temporali all’interno delle quali vi sono spazi da sfruttare per sfidare un’egemonia apparentemente incrollabile.

E’ quello che sembrano pensare anche i gruppi che in Gran Bretagna si battono per una nuova legge sul pluralismo che langue da qualche tempo di fronte al Parlamento. Gruppi di cui Des Freedman figura tra gli animatori.

Vedremo se riusciranno a spuntarla nei prossimi mesi, a dispetto dell’ammonimento di Tony Blair: “Se hai un pubblico di 3 o 4 milioni di lettori, anche se i giornali si comportano nel migliore dei modi, questo è potere. E io penso che non vi siano altre parole per descriverlo”.

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