L’Istituto Universitario Europeo ha rilasciato il rapporto per il 2015 sullo stato del pluralismo dei media in 19 paesi dell’Unione (tra cui non figura l’Italia).
Cominciamo dalla conclusione: “Nessuno Stato membro dell’UE è oggi immune dai rischi legati al pluralismo dei media, tenuto conto anche dei rischi specifici che dipendono dal paesaggio dei media di ciascuno Stato”.
A livello generale il voto più ricorrente è “medio rischio” mentre circa alcuni indicatori presi in considerazione dal monitoraggio esso diviene decisamente alto.
Tra questi si ravvisa il pluralismo esterno che soffre di una marcata propensione alla concentrazione e alla conseguente eliminazione delle voci.
L’indice di rischio è un allarmante 64% che scende al 54% per quanto riguarda la proprietà incrociata di più media.
L’indipendenza ed efficacia delle autorità di regolazione ha lasciato perplessi gli autori per la difficoltà di omologare i dati, il che non impedisce loro di sospettare la sussistenza di un rischio alto.
Deludente è anche la trasparenza sulla proprietà dei media che appare carente un po’ dappertutto.
Non è particolarmente brillante nemmeno l’indicatore sull’inclusione sociale con particolare riguardo alla politica di acculturazione ai media, l’unico paese esente da pecche risultando la Svezia dove il rischio è basso grazie anche alla diffusissima familiarità con internet.
Piuttosto sorprendente è invece il dato che riguarda l’influenza politica sui media dove, se da una parte l’interferenza politica diretta risulta bassa, è dall’altra alta la dipendenza indiretta finanziaria nei Paesi dove le televisioni attingono alla pubblicità istituzionale o ricevono le notizie da agenzie di informazione controllate dal governo.
Preoccupazioni qui e là emergono anche sul rapporto centro-periferia, poiché un eccesso di centralismo a danno di qualsiasi voce regionale è visto come un dato regressivo.
Più roseo è invece il quadro riguardante la protezione dei diritti fondamentali ad essere informati, il pluralismo interno e lo status della professione giornalistica.
Grossolane violazioni di questi diritti non sono ravvisate quasi da nessuna parte.
Tiriamo le somme.
Tenuto conto della parzialità del quadro che prende in considerazione un range di paesi che va dagli Stati baltici alla Spagna, all’Austria e a Malta, l’Unione Europea conferma di soffrire dell’assenza di una politica comune sul pluralismo, rispetto al quale il monitoraggio dovrebbe essere la premessa ma non un sostituto.
Messo insieme questo rapporto col precedente, che abbracciava gli altri Paesi, non risulta un quadro molto confortante in un settore che la carta dei diritti europei mette ai primi posti come qualificante l’identità del progetto continentale.
L’approccio esclusivamente economico-mercatista ai media mostra la corda.
Altro discorso potrebbe farsi, suggeriscono gli autori, se dovesse davvero generalizzarsi la distinzione tra le piattaforme di distribuzione e gli editori di contenuti.
In questo scenario, suggerisce il rapporto, l’aggregatore di contenuti (tipo Netflix) offre maggiori garanzie di terzietà rispetto al caso dell’integrazione verticale. Il problema però diventerebbe qui la debolezza dell’acculturazione ai nuovi media che può frenare in modo significativo tale sviluppo.
Colpisce poi la circostanza che dal rapporto siano assenti i motori di ricerca.
A parte la difficoltà di misurazione, del tutto oggettiva, pare condivisibile la scelta di considerare ancora preminente la televisione tradizionale rispetto a realtà il cui originale contributo alla formazione di un’arena pubblica pluralista appare incerto. In fin dei conti Google news indicizza contenuti raccolti da testate tradizionali e non ha una linea editoriale propria.
In sintesi, Bruxelles deve fare di più per correggere e prevenire, e almeno alcuni degli indicatori del monitoraggio dovrebbero essere incorporati nelle legislazioni nazionali.
Vale la pena aggiungere poi a mo’ di conclusione finale che, quanto più i broadcasters appariranno fedelmente impegnati nella garanzia del pluralismo, tanto meglio potranno difendere le loro ragioni su partite come quelle delle frequenze che li vedono in minoranza rispetto alle ragioni dei telefonici.