#Causeries è una rubrica settimanale sulle criticità dei mercati della convergenza e il loro rapporto con le grandi tematiche della regolazione, curata da Stefano Mannoni, professore di Diritto delle Comunicazioni presso l’Università di Firenze.
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Si dice che in Italia sia impossibile risolvere i problemi. Falso. Almeno in un caso posso testimoniare che un problema sia stato risolto. E che problema: nientemeno che il pluralismo! Qualcuno di voi ricorda di avere sentito pronunciare la parola ultimamente? Sfido a provarlo. Eppure per quaranta anni siamo stati tempestati di gridi allarme: Hannibal ad portas! Oggi con otto telegiornali allineati con una sintonia da fare invidia all’istituto Luce nessuno trova niente da ridire: non la dottrina giuridica che con l’art. 21 della Costituzione ha costruito carriere accademiche e politiche; non il partito democratico, che batteva questo tamburo per distrarre dal disarmante vacuo programmatico; e non le istituzioni di regolazione che sulla questione avevano costruito buona parte della loro legittimazione.
In questa svolta vi è molto di positivo. Per chi ricorda la stucchevole ipocrisia e retorica che circondava gli ossessivi dibattiti sulla libertà di informazione, l’attuale condizione può essere descritta come quella di una sobria maturità. Le isterie che avevano accompagnato l’assurdo disegno di legge Gentiloni – che oggi sembra risalire a 60 anni fa, e non a 6 – sono consegnate al genere dell’opera buffa.
Come accade però nelle frettolose liquidazioni, bisogna chiedersi quanto in questa svolta giochi la contingenza politica – renzismo e patto del Nazareno – quanto la pigrizia intellettuale, e quanto invece una meditata presa di coscienza. La domanda è del tutto legittima, poiché forte è il sospetto che dietro questa nuova stagione alligni qualcosa di vecchio e di ben poco rispettabile. Ovvero una specie di versione nostrana del liberalismo che suona all’incirca così: le regole non contano niente ed è il mercato – ossia la vecchia struttura marxista del capitale – a scrivere la storia. Nella migliore delle ipotesi, si consegna il tema del public interest test a quello del puro e semplice diritto della concorrenza, peraltro anch’esso assai depotenziato.
Ora preme ricordare che il tema del liberalismo, nei paesi che vi hanno dato i natali, è declinato come regole duttili e leggere; non come la negazione a priori del valore assiologico dello stato di diritto. In un paese come l’Italia non proprio brillante quanto a interiorizzazione della rule of law, questo monito appare necessario. Non a caso è in questa direzione che si muovono USA e Gran Bretagna, i modelli cui di tanto in tanto dall’Italia si guarda con attenzione selettiva (tradotto: prendo quello che mi fa comodo e lascio il resto).
Quali siano le ragioni italiane di questo superamento dialettico del pluralismo (perdonatemi l’ironia, ma un certo criptomarxismo serpeggia in questi discorsi), lo scopriremo presto perché la Commissione europea pare intenzionata a proseguire sul terreno della misurazione del pluralismo. E’ un terreno difficile e controverso, poiché misurare mele e pere (satellite, digitale, giornali, internet etc,) è operazione assai complessa. Serve però a dissipare il dubbio circa il fatto che l’avvento dei motori di ricerca – la nouvelle vague dell’isteria continentale – possa autorizzare a considerare archiviata la questione. Insomma: si illude chi pensa di avere individuato in Google la testa di turco dietro la quale mascherare un vuoto intellettuale o una becera astuzia tattica.