#Causeries è una rubrica settimanale sulle criticità dei mercati della convergenza e il loro rapporto con le grandi tematiche della regolazione, curata da Stefano Mannoni, professore di Diritto delle Comunicazioni presso l’Università di Firenze.
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Conoscere è misurare. Dal positivismo di Auguste Comte in poi, le scienze sociali si sono assoggettate anch’esse a questo duro giogo dei numeri. Ultimo è arrivato il diritto, e tra i ritardatari un concetto che figura da settanta anni almeno nel lessico giuridico occidentale: il pluralismo dei media. La Commissione europea qualche anno fa decise che era tempo di misurarlo anche in Europa e il primo risultato fu un modello molto sofisticato elaborato sotto la guida della eccellente Professoressa Peggy Valcke.
Senonché, con i suoi 166 indicatori di rischio, questa intrigante ricerca incuteva un certo timore ai suoi potenziali destinatari: sarebbe stato applicabile? Oggi la risposta giunge dal CMPF (Centro sui media e il pluralismo dell’Istituto universitario europeo di Fiesole): ebbene si! Ma a prezzo di una notevolissima sfrondatura che ha reso il modello davvero utilizzabile: in questo mondo, non in quello che a noi accademici piace fin troppo, dei seminari. Risultato? Ottimo.
L’idea-forza resta quella tenuta a battesimo dalla Valcke: l’analisi strutturale delle condizioni legali, del mercato e dell’opinione pubblica per valutare i rischi potenziali. Non un’anamnesi quindi, ma una prognosi, effettuata sulla base di un termometro accurato.
La rilevanza è stata ora giudiziosamente circoscritta alle news and current affairs, una volta constatata la difficolta di inseguire altri settori, come l’intrattenimento, pure assai rilevanti. La selezione dei criteri è stata fatta tanto sulla base dell’applicabilità che della neutralità: ossia devono valere come griglia per tutti i paesi UE, ancorché essi esibiscano storie industriali e giuridiche diverse. I criteri? Quelli sui quali la ricerca conviene da qualche tempo (con la notevole eccezione di internet su cui tra breve dirò).
Dunque: concentrazione e centralizzazione dei media; salvaguardia dell’indipendenza dei giornalisti; accesso delle minoranze e delle identità regionali; politicizzazione; riconoscimento del pluralismo come valore in sé; salvaguardie circa il controllo incrociato dei media; esistenza e implementazione delle misure regolatorie; indipendenza finanziaria dei fornitori di contenuti; attendibilità delle autorità indipendenti.
Orbene il lettore si chiederà a questo punto quali scoperte ha consegnato il modello, una volta testato su alcuni paesi campione. Assai interessanti direi. Basti un riferimento a tre paesi: il nostro, che si vede assegnare un rischio medio-alto, lontano dai toni apocalittici da sabato del villaggio di Repubblica (di qualche tempo fa, si intende) e, soprattutto, solo un gradino più elevato di Gran Bretagna e Francia: che si prendono un verdetto di medio rischio, niente affatto agiografico e lusinghiero. Pessime Grecia, Ungheria e Bulgaria; buone Belgio e Danimarca ecc.. Insomma anche il senso comune si ritrova nelle conclusioni, il che è sempre un buon risvolto dell’astrazione dei numeri.
Rilievi critici? Li ravviso sul versante di internet che non mi convince del tutto. Se mi persuade in astratto il riferimento alla net neutrality – enucleata nel modello come indicatore di buona salute del pluralismo – in concreto esso mi lascia piuttosto indifferente, poiché la sua regolazione sarà tutta europea e non nazionale. A meno che la Commissione non sia così invitata a monitorare se stessa, il che, a pensarci bene, su questo tema specifico non sarebbe affatto una cattiva idea.
Rimango invece interdetto e deluso al cospetto della latitanza della findability dei contenuti online e di quello che il Consiglio di Stato francese ha chiamato la obligation de loyauté des intermediaires. Insomma: se questo è un modello dei rischi prospettici mi pare il minimo sindacale attendersi un riferimento alla “buona fede del servizio di classificazione e indicazione dei contenuti” (si veda causeries, sul rapporto del CdS gallicano).
Dove però ci imbattiamo in un errore bello e buono è nell’ammiccamento maldestro alla crociata per la diffusione della banda larga, richiamata sotto forma di criterio della qualità della connessione internet.
Questa proprio ci mancava! Aggiungiamo ora anche il pluralismo alla lista di problemini che la missione dei 20 mega in Aspromonte e in Val Camonica sono chiamati ad affrontare: dall’incremento della vendita delle caciotte e dei collant alla soluzione della questione meridionale; dalla internazionalizzazione dell’università alla democratizzazione dell’amministrazione per sorvolare sull’ovvia ascesa di molti punti del PIL, sulla diffusione dell’arte e della cultura italiana ecc ecc..
Sembra sfuggire ahimè che aggregare il pluralismo alla carovana del millenarismo dei giga non è affatto innocuo. Anzi: francamente deleterio. Vi è infatti da espettarsi e da scommettere che la soluzione dei rischi paventati troverà una pronta e accomodante risposta nella promessa di connessioni ultraveloci per tutti, soprattutto per i molti che non sapranno cosa farsene. Dove al contrario sarebbe plausibile articolare la questione è all’interno del criterio – questo sì molto opportuno – che il rapporto individua e definisce come “acculturazione ai media”. E’ proprio qui che si misura la potenzialità di internet di trasformarsi da navigazione occasionale in audience rilevante ai fini del pluralismo.
In sintesi quindi, fatta eccezione per questa bonaria tirata di orecchie (che agli autori costa solo mezzo punto di voto all’esame) ribadisco il giudizio iniziale: ottimo!