#Causeries è una rubrica settimanale sulle criticità dei mercati della convergenza e il loro rapporto con le grandi tematiche della regolazione, curata da Stefano Mannoni, professore di Diritto delle Comunicazioni presso l’Università di Firenze.
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Quando Chris Anderson introdusse nel 2006 il termine “lunga coda” per rappresentare i mutamenti nell’audience innescati dalla digitalizzazione, molti pensavano o speravano che una rivoluzione fosse alle porte.
L’idea era che l’importanza della testa – ossia dei programmi più importanti – si riducesse man mano che la coda – i programmi di nicchia – si allungava e ispessiva.
Ebbene gli anni sono trascorsi, ma la rivoluzione non si è materializzata.
I programmi premium continuano ad attirare la gran parte dell’attenzione mentre quelli di nicchia rappresentano una voce di qualche rilievo solo nel mondo on demand.
La regola dell’80/20 (i programmi principali attirano l’80%, gli altri il resto) non è stata spodestata.
Se non vi è stata una rivoluzione è però in corso una evoluzione che muta gradualmente la composizione dell’audience e i metodi per rilevarla.
Il libro di Philip M. Napoli, Audience Evolution. New Technologies and the Transformation of Media Audiences ( Columbia University Press, New York, 2010) conserva intatta la sua attualità.
Premesso che l’audience è fondamentalmente una costruzione dell’industria dei media, dei pubblicitari e delle aziende che operano nel business della misurazione, essa è nondimeno molto esposta agli effetti dell’innovazione tecnologica.
Ora la digitalizzazione effetti ne ha prodotti, eccome, nella struttura dell’audience almeno in due direzioni.
La prima è quella della frammentazione: ossia il pubblico è molto articolato e non così facile da intercettare.
La seconda è quella dell’autonomia: ossia il riscatto dalla condizione di passività tipica del rapporto dello spettatore con i media analogici.
Il risultato?
La configurazione dell’audience intorno al nucleo dell’attenzione non è più sufficiente: in altre parole la misurazione confinata alla sola esposizione al mezzo è irrimediabilmente parziale e datata.
Non è detto infatti che la semplice esposizione catturi la partecipazione emotiva, il coinvolgimento del pubblico, che sono poi i fattori che interessano maggiormente tanto all’investitore pubblicitario quanto al produttore di contenuti il quale cerca indizi su cosa possa suscitare interesse propiziando un successo commerciale.
Se si vuole ci troviamo confrontati a un paradosso: il ritorno di una dimensione arcaica della fruizione dei media come la partecipazione attiva (si pensi al pubblico nel teatro shakespeariano) rispetto alla passività che aveva contrassegnato la fase contemporanea.
E questa dimensione partecipativa – il web-buzz – non può affatto essere ignorata nella misurazione dell’audience senza offrire un feedback assai limitato del successo di un prodotto audiovisivo.
La catena della misurazione viene pertanto così ricostruita da Philip M. Napoli: consapevolezza, interesse, esposizione, attenzione, lealtà, apprezzamento, emozione, atteggiamento, ricordo.
In sintesi partecipazione (engagement) e comportamento.
Ma sono davvero catturabili questi anelli della catena dell’attenzione?
La tecnologia ci risponde: in larga misura sì.
A questo punto sorge spontanea la domanda: è pronta l’industria, sono preparate le istituzioni a varcare la soglia di quella che l’autore chiama la post-exposure audience marketplace?
Orbene la risposta sembra essere: no!
Interessi consolidati e scrupoli giuridici (come evidenti questioni di privacy) rappresentano formidabili resistenze che possono determinare una divaricazione tra il fatto e la sua rappresentazione.
Con conseguenze deleterie.
Bisogna tenere a mente che per quanto oggetto di una costruzione sociale, l’audience non può comunque scollarsi troppo dalle dinamiche della fattualità senza perdere la funzione che assolve per le parti interessate.
Vi è pertanto da scommettere che l’evoluzione – la quale vede già preparate le aziende di misurazione – potrà essere rallentata ma non impedita.