Fino ad oggi hanno campeggiato due paradigmi interpretativi di internet.
Il primo, definito “strumentalista”, minoritario, che lo vede come una tecnologia servente altri scopi, al pari di altre.
Il secondo, “determinista”, che vede nella tecnologia una forza autoreferenziale e autopoietica rispetto alla quale poco o nulla può il potere pubblico.
Per alcuni, i credenti nell’utopia, questo è un bene; per altri, i fautori della distopia, lo scenario è funesto. Madelin Carr in US Power and the Internet in International Relations, Palgrave 2016, definisce entrambi i modelli sbagliati.
Quello giusto è quello “costruttivista” che restituisce allo Stato il potere di determinare, influenzare, indirizzare la rete.
Tre esempi sono offerti per dimostrare questa asserzione di una piena rivendicazione del potere politico all’esercizio delle sue prerogative su internet per orientarlo verso gli obbiettivi desiderati: governo e consenso internazionale.
Il primo è la cyber-security dove l’Amministrazione USA ha sponsorizzato una partnership pubblico/privato nella convinzione che questa soluzione coniugasse efficienza con un’ampia legittimità internazionale.
Il secondo è quello dell’Icann, dove invece gli USA hanno sfidato l’impopolarità della interferenza governativa sull’organismo, perché ritenuta essenziale per l’interesse nazionale nel guidare il processo tecnologico.
La terza è quella della net-neutrality, dove invece la politica si è divisa: chi riteneva che l’interesse pubblico fosse servito meglio lasciando le cose come stanno; chi invece riteneva che la differenziazione in corsie lente e veloci fosse propedeutico a una più efficiente gestione della rete.
La morale della favola comunque è che contrariamente a chi crede che la tecnologia obbedisca a leggi proprie largamente indifferenti all’impotente potere pubblico si illude.
Essa è invece plasmata e modellata, seppure con tocco leggero e abili transazioni, dal potere politico che ha idee chiare sull’uso, i pericoli, le prospettive che l’era digitale può offrire.