I nostri vecchi dicevano “si stava meglio quando si stava peggio”. E a leggere il libro di Irene Stolzi sulle inchieste parlamentari (Milano, Giuffré, collana “Per la storia del pensiero giuridico”, 2015) il dubbio che non avessero tutti i torti sorge spontaneo.
Vediamo il punto di partenza: la democrazia diretta e i numerosissimi strumenti a disposizione del cittadino per conoscere gli arcani del potere hanno rivoluzionato il rapporto tra potere politico e opinione pubblica. Addirittura si parla di un istituto antico, il “recall”, per sanzionare i deputati che non siano fedeli al mandato degli elettori.
Ma il bilancio della democrazia digitale soddisfa le attese?
Il dubbio è legittimo e la circostanza che si ripercorrano le tappe di un istituto come le inchieste parlamentari, che sembrava consegnato agli archivi, dimostra che non è infondato.
Se prendiamo infatti la ricostruzione della Stolzi scopriamo che la rappresentanza parlamentare nel suo momento d’oro non era affatto insensibile al tema dell’indagine e utilizzava un concetto pre-giuridico come quello dell’”onore” come arma a doppio taglio: come limite, ma anche come sprone per aprire cassetti ed esigere ammissioni.
“La specifica utilità dell’inchiesta parlamentare”, scrive la Stolzi, “nasceva dall’esigenza – non nuova – di ricavare uno spazio per accertamenti condotti con “metodi non burocratici” e dalla contestuale esigenza di identificare, anche per questa categoria di indagini, una prerogativa parlamentare”. Appunto: “prerogativa parlamentare”.
Certo il timore di alimentare la “rivoluzione sociale” induceva a non premere troppo l’acceleratore, delegittimando quella che era alla fine sempre un’oligarchia.
Ma l’aspetto interessante è che questa oligarchia prendeva abbastanza sul serio la sua retorica da non rinunciare alle indagini parlamentari per due scopi: scoprire le magagne dei suoi membri e conoscere meglio il paese.
Ed altrettanto interessante è la volontà di tracciare una linea di demarcazione tra accertamento politico e giudiziario che non fosse pregiudizialmente sfavorevole al primo, ancorché formalmente rispettoso del secondo.
Che cosa ricavare da questa ricostruzione?
Il modello dello Stato rappresentativo liberale costituisce un punto fermo in Europa, di cui l’Italia fa parte integrante senza complessi.
In secondo luogo, l’efficacia della funzione ispettiva è funzione della saldezza della classe dirigente sul paese reale: in altre parole, vi è il timore che il cortocircuito stampa-rappresentanza possa detonare sotto le fondamenta di una classe politica non sicura del suo ascendente.
Ma perché occuparsi di vicende di oltre un secolo fa?
Direi: per la grande delusione della democrazia elettronica.
Siamo sopraffatti dalle notizie, ma siamo ignoranti quasi quanto i nostri avi.
E se così stanno le cose, bisognerebbe smettere di delegittimare le istituzioni rappresentative, posto che la democrazia dal basso non ha recato i contributi sperati né in termini di partecipazione che di trasparenza.
Quanto alla storia, se un parlamento oligarchico è riuscito ad interrogarsi sul Paese e su di sé con tanta insistenza, tutto sommato possiamo guardare al nostro passato con un occhio meno disincantato e con maggiore convinzione rispetto al percorso istituzionale compiuto da una linea di partenza così recente rispetto ad altre democrazie europee.
Non mi pare che i vari centenari che si sono susseguiti abbiano colto questo aspetto: che forse eravamo più europei quando lo sembravamo meno!