#Causeries è una rubrica settimanale sulle criticità dei mercati della convergenza e il loro rapporto con le grandi tematiche della regolazione, curata da Stefano Mannoni, professore di Diritto delle Comunicazioni presso l’Università di Firenze.
Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.
Non si sono ancora spenti gli echi di quando il presidente della FCC repubblicana, Michael Powell, ridicolizzò in un’audizione il concetto di “public interest”: nessun angelo gli aveva rivelato nella notte il significato di questa misteriosa espressione.
Ebbene pare che il misterioso concetto si stia riprendendo la rivincita.
L’occasione è la constatazione ovvia a tutti negli USA che il modello di giornalismo sostenuto dalla pubblicità è in via di estinzione: semplicemente non ha alcun futuro di fronte a sé.
Ecco allora che da qualche angolo spuntano fuori proposte del tutto familiari agli orecchi europei: perché non finanziare con risorse pubbliche il giornalismo indipendente?
Naturalmente chi ritiene che il paradigma liberista sia l’unico a meritare questa definizione, non può che sorridere di fronte a questa iniezione di socialdemocrazia nel mercato dei grandi oligopoli.
Senonché questa suggestione non è poi così estranea alla cultura americana dei media, a guardare meglio le fonti.
E’ per l’appunto merito di un’importante ricerca del Prof. Victor Packard dell’Università della Pennsylvania (America’s Battle for Media Democracy. The Triumph of Corporate Libertarianism and the Future of Media Reform, Cambridge, 2014) avere riscoperto questo filone “social-democratico” che animò la FCC dal 1939 al 1947.
Avendo constatato che la radio, ostaggio degli investitori pubblicitari, liquidava qualsiasi programmazione socialmente utile (emarginando o ridicolizzando in particolare gli afro-americani), la Commissione si batté inizialmente per limitare la libertà editoriale dei broadcasters (Mayflower Doctrine), tentando poi di obbligarli a una programmazione di utilità pubblica.
La forte reazione dell’industria costrinse la FCC ad arretrare, e ad accontentarsi della Fairness Doctrine (l’obbligo generico di imparzialità nella presentazione di questioni di interesse pubblico), poi revocata ai tempi di Ronald Reagan.
La scarsità delle risorse radio aveva consentito alla FCC di esercitare queste prerogative, dapprima con energia, poi con crescente scetticismo.
Ebbene oggi la regolazione si trova di nuovo di fronte a un bivio.
Da una parte la migrazione dei contenuti su una piattaforma non-scarsa come la banda larga fa venire meno uno degli argomenti a disposizione dello Stato per condizionare la programmazione privata.
Dall’altra però è chiaro a tutti il fatto che rete libera non significa contenuti liberi: donde l’esigenza di chiedersi se il mercato soddisfi da solo la domanda di un’informazione tempestiva, imparziale e pluralista.
Se la risposta è quella dell’accertamento di un fallimento del mercato nell’esaudire questa domanda democratica allora il ruolo dello Stato torna ad essere cruciale.
E non sorprende che il suo ritorno inizi proprio là dove tutto è cominciato: nel regno della televisione commerciale di oltre Atlantico.