Confesso di non capire, ma probabilmente i miei lettori sono più perspicaci.
Stefano Parisi, nella convention milanese, ha caricato a testa bassa il progetto governativo di riforma costituzionale, invocando un’Assemblea costituente.
Su quest’ultima proposta non voglio nemmeno soffermarmi, per non fare torto all’intelligenza di chi mi legge – le Assemblee costituenti si fanno nei momenti di svolta epocale, e non arrabattando consensi tra partititi divisi su tutto.
Voglio invece esprimere la mia sorpresa di fronte alla cecità di Parisi, che di grandi reti se ne intende, in presenza di una previsione del progetto di riforma che attribuisce allo Stato il compito di realizzare le infrastrutture strategiche nonché il coordinamento delle piattaforme informatiche. Si tratta, questa sì, di una svolta epocale dopo la disastrosa riforma del Titolo V della Costituzione che frammentava le competenze tra Stato, Regioni, Comuni e non so chi altro.
Chi tiene a cuore l’avvicinamento dell’Italia ai migliori modelli di sviluppo tecnologico non può che plaudire incondizionatamente a questa disposizione.
Resta il Senato, ridotto secondo alcuni a “dopolavoro” dei consiglieri regionali. Ebbene è vero l’esatto contrario: il Senato delle regioni serve ad allargare l’orbita provinciale e campanilistica di quest’ultima per renderla nazionale.
Infine Parisi ha fatto appello all’unità del centro-destra.
E qui casca l’asino, perché il progetto di riforma governativo è quanto di più vicino alle opinioni espresse nella commissione dei saggi nominata da Letta dai giuristi di area di centro-destra.
Sarebbe di gran lunga preferibile allora che Parisi sfidasse il suo avversario Renzi su un terreno meno improbabile e scivoloso di quello che ha scelto. Facendo invece prova di statista nell’approvare una riforma che non reca nessuna bandierina se non l’interesse oggettivo del Paese.