#Causeries è una rubrica settimanale sulle criticità dei mercati della convergenza e il loro rapporto con le grandi tematiche della regolazione, curata da Stefano Mannoni, professore di Diritto delle Comunicazioni presso l’Università di Firenze.
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Il lettore mi perdonerà se questa volta scrivo smaccatamente in causa propria.
Ma l’impulso arrecato dalla lettura dell’editoriale di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera del 24 luglio 2015 a difesa i prefetti dal titolo “Non rottamiamo anche i Prefetti sono il simbolo dello Stato” è stato irresistibile.
Come figlio di un Prefetto che ha rappresentato lo Stato negli anni Settanta e Ottanta, penso di saperne qualcosa: nelle Prefetture ci ho vissuto. Come a suo tempo il ben più autorevole Prezzolini.
Quando arrivai nella prima sede, a metà degli anni Settanta sulla rubrica telefonica del Prefetto figuravano le seguenti istituzioni che potevano essere convocate in qualsiasi momento, quando la necessità lo richiedesse: il Questore, il Medico provinciale, il Veterinario provinciale, il Provveditore agli Studi, l’Intendente di Finanza, l’ingegnere dei Vigili del Fuoco e il Genio civile. Orari di lavoro non esistevano. Prefetti e capi di gabinetto lavoravano fino a notte tarda, riferivano a Roma e provvedevano al da farsi. La famiglia non esisteva, le mogli e i figli erano rassegnati.
I rapporti con i sindaci erano all’epoca di rispetto reciproco, poiché il Pci (parlo della Toscana) imponeva un Cursus honorum che raramente produceva incompetenti o soggetti insofferenti della legalità e del dialogo con i rappresentanti del governo.
Questo e durato fino agli anni Ottanta.
A partire dagli anni Novanta, con alcune notevoli eccezioni (come il Prefetto Bruno Ferrante a Milano) i Prefetti sono caduti nell’oblio o, peggio, sono stati oggetto di una sistematica campagna di delegittimazione.
Perché?
L’ostilità verso i Prefetti viene da lontano.
Luigi Einaudi li attaccò con veemenza all’indomani della Repubblica, le sinistre li attaccarono perché antitetici alla democrazia partecipativa che avrebbero dovuto rappresentare gli enti locali, e quel che restava della Democrazia Cristiana e della destra si guardò bene dal difenderli.
Risultato?
Un caos amministrativo costosissimo, dove il cittadino non ha guadagnato nulla in partecipazione e ha perso un sacco di soldi per mantenere questo moloch che riproduceva in loco il totale annichilimento della distinzione tra politica e amministrazione.
Per tacere della professionalità.
Certo vi sono stati Prefetti inadeguati.
Ma quanti amministratori locali senza arte né parte sono stati adeguati?
In questa campagna di delegittimazione una parte importante ha giocato l’università, dove l’indottrinamento sistematico degli studenti a favore di un decentramento assoluto prosegue tenace e incontestato fino a oggi. Mi sono trovato ancora ieri in una sessione di tesi dove il malcapitato candidato doveva dissertare della forma di governo dei consigli regionali come si trattasse del parlamento inglese.
Non sapevo se compatire di più lo studente o il professore per questa lunare dissertazione.
A questa campagna accademica hanno contribuito potentemente due fattori. Il primo ideologico: il principio democratico incarnato nei corpi elettivi. E uno molto materiale: centinaia di docenti si sono arricchiti come avvocati difendendo Comuni, Provincie e Regioni e prestando costose consulenze.
Mi si potrà replicare che le Regioni erano in Costituzione: si certo, ma non la disgregazione dello Stato!
Uno Stato che è stato odiato sin dal 1865 sia da un minoranza di liberali elitisti che avevano scambiato l’Italia per il Surrey britannico: del centro cattolico che dal 1820 vagheggiava il ritorno al neo-corporativismo e alla gerarchia sociale benevola con la accudita classe operaia; nonché da sinistra dove il modello era la Comune di Parigi e la liquidazione dello stato autoritario borghese.
Celebrando quest’anno i 150 anni delle leggi amministrative del 1865, c’è da scommettere che la versione conformista (lo Stato unitario centralista è stato un errore storico) verrà ribadita pedissequamente ancora una volta.
Ma vi erano alternative al centralismo amministrativo?
Davvero poche, come attesta il fatto che dal Belgio in giù il centralismo, sotto forme diverse, fosse fuori discussione, ossia indispensabile.
Del resto bravi Prefetti non sono mancati nemmeno allora.
Thomas Mann nella Morte a Venezia evoca un allarme colera che è storicamente fondato.
Il prefetto Amedeo Nasalli Rocca lo lanciò e Giovanni Giolitti lo punì per avere allarmato il turismo internazionale.
Chi poi sostiene che la Prefettura appartiene all’archeologia, mentre le istituzioni del futuro sono istituzioni come le autorità indipendenti, deve parlare con prudenza.
Quando salta la distinzione tra struttura istruttoria e organo di indirizzo politico che si arroga il potere di fare e disfare i procedimenti in base a desiderata politici o lobbystici, mi pare che il livello di guardia sia stato superato.
Le lobbies e l’influenza politica sono inevitabili, ma qualche paletto deve pure esserci.
È allora?
Non voglio dire che si stava meglio quando si stava peggio ma sono convinto che bisogna restituire ai Prefetti dignità e motivazione.
La circostanza stessa che centinaia di Comuni abbiano sistematicamente bisogno di un Commissario basterebbe da solo a dimostrarlo.
Né mi pare che la giurisdizione amministrativa, sovraccarica di ricorsi di cittadini imbestialiti, attesti un grande successo della promessa della amministrazione elettiva di prossimità: tanto partecipativa quanto attenta allo scrupoloso rispetto dei bisogni del territorio.
Scherziamo?
La dissoluzione dell’amministrazione in politica assoluta, così come la celebrazione del consulente aziendale come surrogato del funzionario, sono pericolosi abbagli da cui bisogna guardarsi.
Infine un’avvertenza.
La moda di nominare Prefetti i Questori tradisce tanto il cedimento alla pressione politica, sindacale e un po’ ambigua (vi sono favori da restituire?) di quella categoria, quanto l’incomprensione del fatto che amministrazione civile e polizia procedono da culture, priorità e sensibilità diverse.
Si è autorevoli quando si ottiene il rispetto della cittadinanza, non perché si assumono pigli autoritari che sanno più di nostalgia del manganello che di cultura di governo.