#Causeries è una rubrica settimanale sulle criticità dei mercati della convergenza e il loro rapporto con le grandi tematiche della regolazione, curata da Stefano Mannoni, professore di Diritto delle Comunicazioni presso l’Università di Firenze.
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Nessuna disciplina giuridica si interroga su se stessa con tanta passione e tensione come il diritto della concorrenza.
Ed è naturale che sia così.
Gli enormi poteri conferiti alle istituzioni chiamate ad esercitarli suscitano ansia e trepidazione tanto tra gli Stati che nelle imprese.
Comprensibile quindi che nel bel mezzo di dibattiti economici e giuridici su paradigmi, tecniche, obiettivi e limiti, spunti anche la domanda: ma come è nata in Europa questa arma letale?
Una magnifica risposta a questo interrogativo è stata data da Oxford University Press nel 2014 sotto forma di una raccolta collettanea di contributi coordinata da Kiran Patel e Heike Ulrike (The Historical Foundations of EU Competition Law), la quale compie il passo ardito ed inedito di mettere insieme storici e giuristi. I quali dialogano procedendo da fini e metodi assai diversi, il che, nondimeno, produce un risultato armonioso.
Ma cosa scoprono gli autori tra archivi e ricostruzioni dogmatiche?
Almeno quattro cose.
- Il 1945 è l’anno zero della concorrenza in Europa. Prima di allora il cartello era unanimemente considerato il metodo più efficace per tenere a bada la concorrenza distruttiva. La ricostruzione molto minuta dei tentativi degli Stati di reprimere gli eccessi dei cartelli tra le due Guerre Mondiali, nonché i dibattiti alla Società delle Nazioni non modificano il giudizio finale: prima degli anni Cinquanta non vi è né cultura né pratica della concorrenza in Europa, al di qua o al di là del Reno, oltre Manica inclusa. Gli americani hanno fatto la loro parte nel scuotere gli europei da questa idolatria del cartello e della pianificazione.
- L’influenza della scuola Ordoliberale tedesca è stata indubbiamente notevole, ma non esclusiva. La preoccupazione socialdemocratica di assicurare stabilità e benessere, in chiave neocorporativa, ha giocato una parte non secondaria nell’interpretazione dei divieti iscritti nei trattati al pari della dottrina keynesiana favorevole a un incoraggiamento del consolidamento e della espansione industriale, via la pianificazione. In questo approccio, la soluzione delle crisi e il ricorso agli aiuti di Stato avrebbero dovuto all’occorrenza fare aggio sulla concorrenza. Fino agli anni Settanta l’incidenza della visione public interest-centered (ossia politicamente motivata) si è fatta sentire sulla Commissione e ha condizionato la competition-related doctrine (ossia la visione ordoliberale).
- I francesi hanno esercitato una considerevole influenza nella negoziazione dei trattati, temperando la tendenza tedesca a un divieto assoluto dei cartelli. Se uno scopo doveva prevalere non era quello di colpire gli accordi orizzontali, come volevano i tedeschi, ma semmai le restrizioni verticali. Inoltre i francesi portano con sé la distinzione tra cartelli “buoni” e “cattivi” che cozzava con il divieto assoluto (Verbotsprinzip) tipicamente ordoliberale. Il compromesso elaborato da Hans von der Groeben paga un prezzo ai francesi, ove enuncia un divieto generale, seguito dalla possibilità di ammettere eccezioni. Dove i tedeschi hanno invece trionfato è nella elaborazione del regolamento 17/62 sulla comunicazione delle intese alla Commissione. La centralizzazione in capo a Bruxelles è stata una scelta strategica decisiva che deve molto ai tedeschi.
- La traccia culturale americana vi è certamente stata. Ma la Corte di giustizia non l’ha subita bensì si è ispirata ai precedenti USA in modo selettivo, laddove concorressero alla equazione, adottata dai giudici alla stregua di una arca santa giurisprudenziale, ossia: la tutela della concorrenza per sé coincide con la protezione del mercato interno, senza dubbi o sbandamenti, e pertanto va implementata con intransigenza. Semmai va registrata una certa fatica della Corte a mettere a fuoco l’importanza dell’articolo del Trattato che proibiva l’abuso di posizione dominante le cui potenzialità vengono scoperte agli inizi degli anni Settanta tanto nel campo delle fusioni che in quello del rifiuto di rifornire un fattore produttivo essenziale a un concorrente, con la conseguenza di escluderlo dal mercato.
E gli italiani? Meglio stendere un pietoso velo.
Non pervenuti, come se negli anni Cinquanta e Sessanta la concorrenza fosse un dettaglio ancillare rispetto a una visione rimasta ferma agli anni Venti.
Beninteso, parlo naturalmente dei protagonisti di allora dei dibattiti – assenti o tanto tronfi quanto ininfluenti – e non degli accademici di oggi.
Fa molto piacere che tra gli autori di questo pregevole libro figuri un professore italiano, Lorenzo Federico Pace, il quale si era già distinto nel 2005 con una monografia dal titolo “I fondamenti del diritto antitrust europeo” (editore Giuffré) la quale esordiva con una cause celebre che dice tutto su quale fosse la condizione della concorrenza in Europa prima del 1945. Nel 1897 la giurisdizione tedesca respingeva il ricorso di un’impresa strozzata dal cartello della cellulosa. Ma come! I cartelli sono indispensabili al mercato, altrimenti destinato a una anarchia contraria all’interesse imperiale dello Stato e a quelli degli operai.