Big Data e diritto della concorrenza non sono spesso coniugati nelle stesse frasi. Non è una novità, direte, poiché l’antitrust lascia volentieri alla privacy il compito di vedersela con questa nuova e inquietante frontiera.
Il punto è che da qualche tempo le autorità della privacy invocano l’assistenza delle cugine dell’antitrust per fare fronte a un fenomeno di proporzioni costantemente crescente.
E qui nasce il problema perché l’antitrust è riluttante a fare fronte a un fenomeno che rientra a fatica nei parametri con cui è abituato a lavorare. Riflettiamo per un momento: i dati vengono offerti gratis quando l’antitrust, quando per esempio si occupa di concentrazioni, valuta se all’esito della fusione l’efficienza sia aumentata o diminuita. Ed efficienza è un dato quantificabile identificandosi col prezzo.
Inoltre l’offerta gratis ai consumatori di masse enormi di dati è valutata se non proprio positivamente almeno senza troppe riserve.
Poniamo allora che il consumatore debba sacrificare la propria privacy in cambio di un accesso ai dati più ampio e rigorosamente gratis.
Pensate davvero che l’antitrust bloccherebbe la fusione solo perché l’utente deve sottoscrivere una lista di condizioni di riservatezza un po’ più breve di quella che generalmente ignora?
Il grido di allarme è lanciato da un libro di Oxford University Press, dal titolo Big Data and Competition Policy (2016) nel quale i due autori , Stucke e Grunes, insistono sulla necessità di affrancarsi dall’ipoteca della scuoia di Chicago per abbracciare un obbiettivo più ampio per l’antitrust: non la fredda efficienza ma il benessere del consumatore nel quale, in quelli che sono abitualmente mercati a due versanti, la riduzione della privacy entri nel conto quando si tratta di approvare una fusione.
“Il consenso emergente”, ci avvertono, “è che il parametro della protezione della privacy, per quanto non quantificabile in termini di prezzo, debba essere tenuto in conto. Prezzi più bassi non possono rappresentare un valido trade off per la riduzione delle garanzie sulla privacy”.
E’ come se una compagnia aerea low cost proponesse una fusione che conduce a una riduzione del prezzo, eliminando drasticamente tutti quei servizi di qualità che connotavano la compagnia assorbita (è il caso Ryanair affrontato dalla Corte di Giustizia).
E non finisce qui.
Gli autori si danno una gran pena nello sfatare alcuni miti, il primo dei quali è che le forze del mercato bastino da sole a ripristinare l’equilibrio tra privacy e big data.
Non è vero, come non è vero che le barriere di ingresso in fusioni di dimensioni imponenti possano essere sfidate in mercati ad accelerata evoluzione tecnologica. Nemmeno va preso per buono l’argomento che il consumatore sia disponibile a cambiare operatore in nome della bandiera della privacy.
Non lo farà, perché tende ad attribuirgli poca importanza e per gli effetti di rete che normalmente si accompagnano a queste fusioni. Morale della favola: spetta alle autorità della concorrenza farsi parti attive identificando che lesioni della privacy possa derivare da una fusione e ampliare l’orizzonte dei propri scopi per bloccare quelle che minaccino seriamente di compromettere un valore che non può essere relegato alla protezione degli scarsi strumenti a disposizione delle autorità della privacy.
Tanto più che questo tema si interseca con un altro altrettanto importante che è quello dell’Internet of Things.
Se Google compra un’impresa di termostati non è certamente perché vuole entrare nel mercato dei termosifoni. Lo scopo è quello di monitorare il comportamento degli utenti offline, raccogliendo messe di dati da offrire agli inserzionisti pubblicitari, dopo che ne è divenuta padrona assoluta nel mondo virtuale online.
E’ un motivo sufficiente per attirare l’attenzione dell’antitrust?
Vedete voi.