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Carta del web: diritti o poteri alla corte dell’algoritmo?

Digitale

La presidenza della Camera dei deputati ha insediato una prestigiosa commissione, presieduta dal professor Stefano Rodotà, per elaborare una bozza di nuova carta dei diritti della rete. Si tratta di un progetto ambizioso, per mettere il nostro paese – e specificatamente il Parlamento – in testa al convoglio di  innovazioni  sociali della Comunità Europea.

Dal testo che è in  discussione, e che meritoriamente è esposto ad un’azione di integrazione e di correzione pubblica, si intuisce che la rete debba essere promossa, diffusa, e normata, alla luce dei diritti individuali.

Ma è davvero così? Davvero oggi il problema è diffondere e regolamentare la Rete come fosse un condominio bizzoso? Davvero il rischio principale è che  vengano violati diritti e guarentigie di individui e comunità per l’obliquo esercizio del potere di comunicare? O piuttosto, in questa fase della storia delle relazioni digitali, quello che rischia di incrinarsi, è invece l’autonomia cognitiva e relazionale di intere comunità che vengono ormai acquisite, come appalti pubblici, dalle potenze  digitali che stanno monopolizzando i servizi  sul web? Insomma, è un problema di diritti formali o di poteri conflittuali?

E’ un nodo storico della politica

Contratto o conflitto? Legge o forza? John Rawls o Carl Schmitt? Di solito, quando la politica si  riconosce debole si ripara dietro alla formalizzazione di diritti teorici: la libertà di pensiero, di movimento, di organizzazione. Quando invece la politica è forte allora si prende di petto il nodo vitale: chi decide cosa.

Oggi siamo su uno strano crinale: la politica, o meglio la cosa pubblica, è fortemente ridimensionata nel senso comune, mentre la Rete, che è ormai lo spazio pubblico per definizione, tende ad espandere la sua area d’azione distinguendosi e distanziandosi dalla sfera politica.

E’ un bene, si dice, perché lo Stato, o ancora di più, i partiti, meno hanno a che fare con la Rete e più quest’ultima rimane libera.

Ma la Rete nasce come gemmazione dello Stato. Nasce attorno alle prime riflessioni di Giordano Bruno, che nelle sue Opere Magiche scrive “nell’infinito spazio possiamo definire  centro nessun punto, o tutti i punti: per questo lo definiamo sfera, il cui centro è ovunque”.

E poi diventa arte di governo con Nicolò Machiavelli che parla di potere “bifocale” dove principe e popolo, reciprocamente, devono riconoscersi relazionandosi quotidianamente. E procede con il pensiero razionalistico di Galileo e Spinoza. Arrivando al protagonismo dello stato americano che con Vannuvar Bush nel ‘45 teorizza l’avvio di una nuova economia del sapere veloce, e poi con le commesse pubbliche che, parallelamente alle università americane della costa occidentale, danno sostanza e sfondo alla suggestione della mobilità dei pensieri e dei comandi.

La Rete è statualità concentrata

Così come Lenin diceva che il socialismo era soviet più elettrificazione, oggi potremmo dire che la democrazia è connettività più decisione. Come spiega Manuel Castells “i media digitali non sono il quarto potere, essi sono lo spazio dove si costruisce tutto il potere”.

Ma tutta questa gigantesca macchina di nuova potestà civile da chi viene condotta? Già Calvino nelle sue ‘Lezioni Americane’ intuì la risposta: “dal software”. Tutti i nostri pensieri sono oggi filtrati, mediati, formattati e trasmessi da algoritmi, a cui tutti i giorni noi affidiamo le nostre funzioni cognitive più pregiate.

Il potere dell’algoritmo e il ruolo dell’Europa

Ma a quali algoritmi? A quelli dei nuovi potentati oligopolistici della Rete: Google, Facebook, Apple, Twitter. Sono loro che oggi capitalizzano e riconfigurano i nostri pensieri. E non è questa la vera partita democratica che va giocata? L’Europa, e con essa gli stati nazionali non devono oggi assicurare, nel ripensare il patto  fra governanti e governati sulla Rete, ai propri cittadini autonomia e sovranità nelle mille azioni discrezionali che necessariamente si trovano a dover delegare ai samurai digitali?

Forse, più che continuare a predicare la diffusione di un sistema  di trasporto, come è la Rete, limitandosi a regolare parcheggi e traffico, e magari anche la riservatezza con cui vengono negoziati i biglietti dei pedaggi, sarebbe il caso di definire modalità con cui ogni automobilista possa andare realmente dove vuole lui e non dove lo conduce la strada.

Rendere pubblico l’algoritmo

 

“Google ha una quota nel mercato delle ricerche sul web più alta in Europa che non negli Stati Uniti: 90% rispetto al 68%”. Da questa banale considerazione è partito il ministro della Giustizia tedesco Heiko Haas, per chiedere a Google di rendere pubblico il suo algoritmo. Spiega Haas “il suo straordinario potere sui consumatori e gli operatori del mercato  deve essere negoziato e contenuto per evitare che si abusi di questo potere”.

E’ esattamente la lezione che ci consegna il secolo scorso, il secolo della fabbrica fordista. Si negoziano prima i poteri e le potenze e poi si formalizzano i diritti e le norme. Soprattutto si individuano i soggetti negoziali, e i luoghi del confronto per dare concretezza e materialità al negoziato.

Sarebbe davvero singolare montare una grande enfasi sui diritti della Rete e non acquisire la consapevolezza di chi siano  i soggetti poi in grado di farli valere. Davvero gli stati nazionali oggi hanno potere negoziale rispetto agli imperi del software? E perché non lo fanno valere sul terreno fiscale che a loro sta particolarmente a cuore? Perché non riescono a mordere, perché la transnazionalità del mercato digitale gli sottrarre l’interlocutore. Allora, potrebbe essere l’Unione Europea il castigamatti, il grande vendicatore del dominio dell’algoritmo.

Mission dei sistemi digitali

Ma davvero pensiamo che un soggetto composito dove interi stati sono ormai ostaggio delle offerte di Google e Amazon, pensiamo ai Balcani o anche ai paesi baltici, possa entrare nel merito del conflitto di potere che si gioca sulla natura e la mission dei sistemi digitali? Sono quesiti che non si ritrovano nel lavoro della commissione Rodotà.

Smart city e comunità territoriali

Così come non si vedono gli spazi per dare corso all’unico vero negoziato che al momento mostra di poter realmente costringere i grandi imperi tecnologici ad una vera relazione paritaria con il mercato: penso al ruolo che possano avere le comunità territoriali, le grandi città, i circuiti delle smart city nell’abilitare o nel non riconoscere soluzioni digitali che arrivano in busta chiusa dalla California. Forse in quella direzione dovrebbe essere pensato uno statuto che assegna a territori e comunità metropolitane i poteri che reclama il ministro tedesco Haas: aprire gli algoritmi e guardarci dentro.

Se non c’è questo stiamo lavorando ancora per il nuovo Re di Prussia.

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