La notizia la riprendo direttamente dal comunicato ufficiale della federazione internazionale di canottaggio (FISA): ”Italy left as the best overall nation. The Italians won nine medal, three of them gold”. Spieghiamo meglio. Domenica 1 ottobre si sono conclusi a Sarasota, in Florida (USA) i mondiali di canottaggio, e l’Italia è risultata prima (tra i 29 Paesi partecipanti) per numero di medaglie complessive vinte. Tre ori, tre argenti e tre bronzi tra specialità olimpiche e pesi leggeri. Le grandi potenze storiche (Nuova Zelanda, Australia, Gran Bretagna, Germania) per una volta sono alle spalle, alcune staccate di molte lunghezze.
Non era mai accaduto nella storia del canottaggio, ed è una notizia straordinaria per lo sport italiano.
Lunedì ti aspetti di leggere la cosa sui quotidiani nazionali col dovuto rilievo e magari anche qualche bella foto, e invece, sfogli Repubblica, e devi far fatica a trovare la notizia condensata in cinque righe in carattere minuscolo in un occhiello in alto a sinistra dell’ultima pagina del ricco inserto sportivo (dieci pagine). Sul Corriere stessa collocazione e stesso carattere, ma almeno le righe sono otto (sic). Ho sospeso qui l’indagine, pressato da considerazioni di ordine più sistemico.
Nell’epoca del trionfo dei social e dei grandi aggregatori digitali, anche come nuovi strumenti di informazione; o nell’epoca delle fake news e dell’eco chambers, per dirla col linguaggio degli accademici; o, ancora, quando l’informazione si fa breve e minimal e le feed news di Facebook sono costruite attorno ad algoritmi che privilegiano i like e i post degli amici, in luogo del pubblic interest della notizia…E allorché l’editoria tradizionale rischia lo stritolamento e il declino irreversibile, schiacciata tra una domanda crescente di informazione h24 e una crisi economica e di identità senza precedenti in tutta la sua storia…di fronte a tutto questo, ha senso e ragione interrogarsi sullo stato dell’informazione e sulla sua capacità di rispondere ai colpi della crisi anche con iniziative coraggiose; rinnovata capacità d’approfondimento; senso critico e pensiero laterale, per dirla con la fortunata immagine di uno psicologo maltese.
Anche perché trovare le risposte giuste per reagire alla tenaglia che sta uccidendo l’informazione – da un lato il trionfo delle piattaforme digitali e dei loro algoritmi salvifici e planetari, dall’altra la crisi irreversibile del modello di business dell’industria editoriale classica – rappresenta uno dei grandi busillis del presente, per un moderno ordinamento democratico, atteso che in questa partita sono in gioco (come ci ripetiamo da un po’), non già i trascurabili destini di piccoli e grandi tycoon, bensì i fondamenti su cui si reggono gli Stati a democrazia rappresentativa, ovvero l’orientamento dell’opinione pubblica e la costruzione del consenso in forma libera e trasparente.
I giornali, il cui palinsesto è sempre più costruito sul canovaccio delle notizie d’agenzia, avrebbero bisogno di coraggiosi sperimentatori e invece per lo più ci si limita a gestire l’esistente e ad inseguire i lettori nella logica del piccolo cabotaggio. Siamo reduci dall’abituale indigestione di intere paginate di giornali (inevitabilmente uguali l’una all’altra) che ci hanno raccontato con dovizia di particolari l’ennesimo gesto di follia armata in salsa yankee: abbiamo appreso la cronaca minuto per minuto, letto e riletto testimonianze che ci raccontano quello che già sappiamo, appreso i dettagli esistenziali, le parentele, il conto in banca e le proprietà immobiliari del signor Nessuno di turno (copyright Corriere della Sera), e ci siamo sorbiti gli inevitabili commenti (tutti fatalmente uguali a quelli della volta scorsa) sul mercato delle armi USA, sulla legge che non arriva e le lobby che vincono sempre, sul destino che grava su una terra che non è più far west ma che genera e nutre ancora tanti sceriffi col cappellone convinti che la miglior giustizia è quella fai da te. Tutto giusto, intendiamoci. Ma avrei preferito per una volta qualche rigo in meno impiegato a descrivere il profilo dell’assassino o il contesto socio psicologico in cui è cresciuto, e magari qualche approfondimento in più su cosa sta accadendo nel Kurdistan iracheno dopo il referendum sconfessato da Baghdad (i giornali se ne sono occupati l’indomani, poi più nulla o quasi) o sulla situazione in Siria, dove il mese appena trascorso è stato il più cruento e sanguinoso dall’inizio della guerra.
E allora, per tornare al canottaggio. Non sarebbe stata una bella scommessa con i propri lettori e una sfida di intelligenza e senso critico con sé stessi, togliere per una volta un titolo in più a Benevento-Inter, con tutto il rispetto per i pugnaci eredi dei sanniti, per regalarlo a uno sport straordinario che per una volta ha portato il nostro Paese in cima al mondo?
Per approfondire:
- Who is who: Fernando Bruno