Dopo due decenni di ritirata, lo Stato italiano è tornato negli ultimi anni ad acquisire quote (di controllo o di minoranza) delle reti di telecomunicazione. Con quale logica e visione complessiva?
La partita più grande e discussa è quella relativa alla rete di accesso fissa, dove lo stato – tramite Enel e CdP– ha avviato due anni fa Open Fiber, ha acquisito Metroweb e l’anno scorso tramite CDP una quota di minoranza di TIM, che possiede anche Inwit, uno dei due principali operatori -l’altro è Cellnex– nel settore delle cosiddette torri basse, usate per la telefonia e la trasmissione dati in mobilità.
Meno discussa, perché più piccola e ancor meno comprensibile, è la logica del doppio intervento nel settore delle torri alte, usate prevalentemente per il broadcasting televisivo. Lo stato ha dapprima spinto nel 2014 la Rai a vendere in borsa il 36% di Raiway; poi nell’ottobre 2018 ha acquistato, tramite, il 60% di EITowers, in precedenza controllata da Mediaset. Un’OPA molto amichevole: 1.630 milioni, 700 dei quali messi da F2i, più una linea di credito di 480 milioni e il resto – per ora- rimasto in pancia a Mediaset.
Non è una partita poi così piccola, nè dal punto di vista finanziario, nè tantomeno dal punto di vista sociale e strategico.
Sotto il profilo finanziario la somma delle due tower company, oggi entrambe a controllo pubblico, vale poco meno di tre miliardi. E’ un valore discutibile perché derivato dal prezzo elevato (180 milioni l’anno) e dalla lunga durata dei contratti di fornitura verso le controllanti Rai e – finché lo è stata- Mediaset. Per entrambe la autofornitura è la voce preponderante dei ricavi (83% nel caso di RaiWay, 70% nel caso di EITowers).
La regia nella costruzione del valore di questo settore è stata di Mediaset che, sin dal passaggio al digitale terrestre, ha riconosciuto alla sua controllata un prezzo in grado di coprire non solo costi correnti, ammortamenti e un ragionevole margine, ma anche i costi di acquisizione delle frequenze.
La Rai ha imitato Mediaset: stesso prezzo di autofornitura, stesso margine; prezzo di quotazione leggermente inferiore a causa anche del minore flottante.
A questo punto, almeno dal punto di vista dell’azienda Rai, sarebbe logico completare l’imitazione cedendo allo stesso prezzo il controllo a F2i, per concentrarsi sull’attività editoriale.
Ma lo Stato che cosa vuol fare?
Dal punto di vista sociale la questione è molto rilevante. Ciascun italiano passa in media più di tre ore al giorno a guardare immagini trasmesse dalle torri alte; più di quanto ne passi sulla rete fissa, mobile e satellitare sommate. Sarà così fino al 2030, con un percorso accidentato dall’abbandono della banda 700 nel 2020-22 che comporta una ripianificazione teorica (non indica le postazioni) e un cambio di impianti, postazioni e ricevitori molto concreto e fastidioso. Con l’assetto proprietario attuale RaiWay e EITowers dovranno gestire la transizione in concorrenza tra di loro, ciò che fa crescere i costi di conversione (paga lo Stato…) e quel che è peggio i disagi dei telespettatori.
Ormai è irrealistico pensare che una fusione possa realizzarsi entro un anno, perché il sistema si è incaprettato nelle procedure e contratti a tutela degli azionisti di minoranza di entrambe le imprese; per non parlare di altre spinose questioni quali i livelli occupazionali non allineati, l’integrazione del management e il ruolo di Persidera, la singolare tower company senza torri partecipata da TIM e da GEDI.
E’ invece possibile e auspicabile che Rai (way) e F2i concordino nei prossimi mesi un’operazione parallela e gemella a quella Eitower. Per Rai si tratterebbe di una entrata straordinaria di diverse centinaia di milioni, sia pure in due fasi come lo è per Mediaset, che ha incassato una plusvalenza di oltre 400 milioni, aggiustando un bilancio compromesso dalle perdite della Premium.
ll ricavo di una operazione straordinaria non potrebbe essere utilizzato dalla Rai per spese correnti, ma per investimenti (e troppi e urgenti ne vengono in mente: dal turn over del personale, al rinnovo della bassa frequenza, all’estensione del magazzino diritti).
Con due imprese gemelle F2i avrebbe tutte le leve per coordinarne da subito le attività transitorie e massimizzare il valore della futura impresa unificata. Per fare solo un paio di esempi, se entrambe le imprese potessero utilizzare dal 2020 le postazioni migliori (es: Valcava) e i canali sui quali hanno più impianti, la copertura sarebbe migliore e i costi inferiori, per le imprese e per i telespettatori. Ma è difficile che questo avvenga solo grazie al tavolo ministeriale TV 4.0, che non può forzare l’interesse alla ricerca di un vantaggio competitivo in particolare da parte di EITowers, che sulla carta si presenta in vantaggio. Un’azionista di controllo comune avrebbe invece un interesse convergente con quello dei telespettatori.
Oggi il valore di RaiWay più EITowers, fondato sulla autofornitura verso le controllanti, può apparire sovrastimato. Non lo è se paragonato agli altri paesi europei, dove si sono da tempo affermate tower company dominanti, regolamentate e indipendenti dai broadcaster.
RaiWay ed EITowers sono molto piccole rispetto ad esempio alla britannica Arquiva o alla francese TDF e quindi sono anche molto in ritardo nell’estensione della loro attività anche nel settore delle torri basse, destinato a una crescita accellerata dal 5G.
Tra i due settori oggi non ci sono molte convergenze tecnologiche. Ma stiamo parlando di utilities, dove le economie di scala contano molto. E stiamo parlando del prossimo decennio, caratterizzato da una progressiva integrazione tra broadcasting e unicasting e da un ruolo dell’operatore di rete non solo nell’allocazione dinamica della banda, ma forse anche nell’orchestrazione dei servizi e nella raccolta ed elaborazione dei dati. Scopriremo che cavi e torri sono la frontiera tra quello che è territoriale e quello che avviene over the top, per sua natura globale.
Tra qualche anno lo stato potrà decidere se è meglio allinearsi con gli altri paesi europei, cedendo con una ricca plusvalenza una bella società a investitori istituzionali privati e non integrati con i broadcaster: oppure che è preferibile mantenere in mano pubblica un asset diventato strategico, per chi crede nel ruolo dello Stato innovatore.
Non mancano né i modelli di business né gli obiettivi di pubblico interesse, per cercare di dare un senso a questa storia, che finora un senso forse non ce l’ ha.