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BreakingDigital. Un manifesto dell’algoritmo per rendere semplice una cosa difficile

Michele Mezza

Michele Mezza

La conclusione dell’Internet festival di Pisa, dopo 4 giorni e centinaia di incontri e forum, su pressoché tutti gli aspetti dell’intreccio fra rete e vita – in contemporanea all’evento di Futuro Remoto a Napoli, e alla vigilia della Makers Faire di Roma, dove per il terzo anno centinaia di start up troveranno una vetrina di massa – si pone ormai ineludibilmente il tema del carattere e dell’utilità di questi incontri specializzati sul mondo digitale.

In sostanza, ha ancora senso isolare la specificità della rete rispetto alle relazioni sociali, all’economia, all’urbanistica, o all’informazione?

Meglio ancora: il digitale è ancora un genere, una specializzazione, una competenza, separata dalla vita ordinaria?

Io credo di no.

Credo che ormai, già da qualche anno, si dovrebbe disperdere questo formicaio itinerante di esperti, osservatori, e curiosi della rete che peripateticamente, gira l’Italia di festival in festival, di convegno in convegno, di workshop in workshop, con il tono degli zoccolanti medioevali che annunciavano la fine del mondo nell’anno mille.

Internet non è più un orizzonte, uno scenario, una cultura, un’innovazione. E’ parte costitutiva e naturale della nostra vita. La incontriamo nei primi tre anni di vita, ed è spesso l’ultima cosa che frequentiamo, prima dell’estrema dipartita.

La rete è indiscutibilmente il brodo primordiale in cui nuotiamo.

Lo è per chi, con esperienza e competenza, si aggira nei suoi meandri, e vi organizza le sue attività professionali, sociali e famigliari. E lo è persino per chi ne è ancora estraneo ma non può esimersi dal riferirsi ad essa per qualsiasi relazione o ragionamento sulla contemporaneità.

Dunque, sarebbe forse ora, così come è capitato a quel caratteristico fenomeno che caratterizzò la prima parte del 900, tenendo a battesimo la globalizzazione, che furono le fiere campionarie – gigantesche vetrine generaliste di ogni qualsivoglia meraviglia industriale, che negli ultimi decenni del secolo sono state frantumate in infinite mostre mercato ultra specializzate – che anche il mondo della rete trovasse linguaggi e forme più aderenti alla realtà per rappresentarsi.

Si tratta di capire cosa realmente stia accadendo in questo gorgo tecnologico, e condividere i temi e i metodo che siano realmente utili per approfondire e scambiare saperi e prodotti.

Certo la rete, rispetto al mondo industriale precedente, ha una sua intrinseca instabilità. In tempi rapidissimi si riorganizza, si ristruttura, si riconfigura, mutando modi e contenuti del suo essere. E questo indubbiamente prolunga la domanda di confronti e discussioni.

Ma il processo di innovazione, per quanto continuamente proceda per disruption, per forza creativamente distruttiva, direbbe Schumpeter, ormai tende ad avere una sua coerenza e rigorosa linearità. Diciamo che in questa fase almeno della storia il filo che lega e caratterizza tutti i dispositivi e gli ambienti digitali nella loro evoluzione coincide con la potenza straordinaria del software, e meglio ancora, con la pervasività degli algoritmi.

Giornalisti, medici, inventori, docenti, consulenti, amministratori, politici, scrittori, imprenditori, tutte le figure che si trovano a ballare attorno ad Internet, cercando soluzioni e modelli per ottimizzarne l’uso e la propria presenza, oggi si trovano alle prese con un solo tema centrale, di cui tutto il resto è puro indotto: la consapevolezza nel coinvolgimento nei sistemi algoritmici.

Alexander Galloway, un giovane e brillantissimo analista del software americano, che insegna nelle più prestigiose università della West Coast, ci spiega che il codice, ossia il linguaggio adottato per organizzare, mediante algoritmi, la soluzione automatica ad ogni problema, è l’unica espressione umana che “convertendo il significato in azione è inconsciamente eseguibile”.

E’ questo il passaggio che oggi, a tutte le latitudini professionali e industriali, a tutte le culture e le competenze, pone con drammaticità il tema della propria autonomia e libertà. Ma anche, più prosaicamente, della propria competitività e capacità di crescere industrialmente come individuo, come azienda, come paese.

Le app, le piattaforme, i linguaggi di programmazione, i social, search engine, l’ontologia dei data base, i giornali online, le smart cities sono tutte funzioni di un’unica potenza. Potremmo dire che come Galileo sosteneva che il libro della vita era scritto con il linguaggio della matematica, il nuovo libro della vita in rete è indiscutibilmente scritto attraverso un set di algoritmi.

Ovviamente tutto è utile e produce opportunità di confronti, e dunque è sempre bene che la gente si incontri a discutere, ma diventerebbe forse più efficace costruire un calendario di eventi in cui si possa, diciamo anche, affrontare in maniera adeguata e approfondita come le singole famiglie della rete – penso ad esempio ai miei colleghi giornalisti – possano costruire un proprio percorso di autonomia e libertà nella selva degli algoritmi prescrittivi che oggi sono gestiti da pochi gruppi  monopolistici online.

Lo stesso mi aspetterei dal mondo delle amministrazioni urbane, o dal mondo della sanità.

Considero dunque importante che in questa contingenza si proponga, come fa la community di DigiDig.it, un manifesto per l’algoritmo come tecnologia di libertà. Si tratta di un primo esempio che tende a scavallare le caleidoscopiche frammentarietà della rete ed a ricomporre una grande community di chi nel digitale ha deciso di trascorrere la propria vita, indicando temi e proposte per costruire un vero itinerario di autonomia e sovranità.

Quel manifesto pone una gerarchia di questioni che sono all’origine di ogni attività in rete. Il cuore, a me pare, non tanto il tema di un possibile rischio di neo colonialismo, che lo strapotere dei grandi marchi americani inevitabilmente delinea, e neppure la surrettizia azione di espropriazione di dati personali che permettono a grandi corporation di costruirci attorno uno scafandro impenetrabile basato su quanto sappiamo e ci piace, negandoci ogni opportunità di serendipity.

Il vero nodo che dovrebbe essere la matrice di una nuova riflessione giuridica, politica, ed etica della rete riguarda il fatto che l’algoritmo, come potenza preponderante rispetto ad ogni altra entità, umana o strumentale, proprio per la sua caratteristica di interferire con il mio cervello, inducendomi a linguaggi, comportamenti e pensieri affini alle soluzioni che mi vuole profilare (e non viceversa) non può rimanere riservato, esclusivo e inaccessibile.

Non stiamo vagheggiando improbabili e anti storiche suggestioni socializzanti o esproprianti di beni preziosi quali sono appunto codici e software elaborati da centri e da aziende.

La proprietà di Google e di Facebook è fuori discussione, la titolarità di soluzioni e dispositivi non è minimamente minacciabile. Semplicemente, si ripropone un caso tipico del capitalismo più efficiente ed efficacie, come la storia dell’occidente ci mostra, che sono la garanzia di tutele antitrust, tipiche della cultura statunitense, e le pratiche di welfare, radicate nella tradizione europea.

In sostanza, si tratta di ottenere il meglio dal funzionamento del mercato riducendo posizioni dominanti e limitando poteri devianti. Così le grandi compagnie petrolifere o le grandi aziende di telecomunicazioni sono state smembrate negli Usa, e i grandi centri di servizi sociali, dalla sanità all’istruzione alla televisione, sono stati posti sotto il controllo pubblico.

Oggi, dopo la fase pionieristica, del far west digitale, della rete, è il momento di civilizzare le forme di intelligenza e connettività, rendendo il potere dei grandi algoritmi che agiscono sui nostri comportamenti trasparenti, negoziabili e modificabili. Fermo restando che la proprietà, come è stato per il petrolio, la telefonia, o la sanità, rimanga ai legittimi titolari.

Ma un algoritmo, chiunque lo abbia elaborato e formattato, fosse anche il più insignificante operatore debuttante, privo di ogni potere e ambizione, deve sottostare a regole di trasparenza, negoziabilità e modificabilità.  Per l’autonomia e la sovranità di tutti i soggetti dell’ecosistema della rete.

E’ quella di cui Bertold Brecht, riferendosi alla giustizia sociale, diceva che è la cosa più facile da capire, ma ancora più difficile da fare. Oggi forse proprio gli algoritmi ci aiuteranno a rendere gli algoritmi facilmente accessibili in libertà.

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