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BreakingDigital. Robot soldati e disoccupazione tecnologica: quale lavoro con l’automazione?

di Michele Mezza |

Che ne sarà dei 120.000 soldati dell’Esercito Usa che presto saranno sostituiti da droni e robot? Sempre più plausibile l’ipotesi che in pochi anni il 50% degli attuali lavori saranno robotizzati

Il Generale Robert Cone, dello Stato maggiore dell’esercito degli Stati Uniti, ha dichiarato che la US Army intende ridurre il numero di soldati in carne e ossa sul fronte per reclutare robot.

Entro il 2019 le truppe americane si ridurranno di 120.000 unità, passando da 540.000 a 420.000.

La notizia, che ci porta alle mille versioni della serie Terminator, in realtà non dovrebbe stupirci poi molto. Ormai sono già dieci anni che le cronache belliche ci riportano di azioni programmate e realizzate da computer.

BreakingDigital, rubrica a cura di Michele Mezza (docente di Culture Digitali all’Università Federico II Napoli) – mediasenzamediatori.org. Analisi e approfondimenti sul mondo dei media e del digitale, con particolare attenzione alle nuove tendenze della galassia multimediale e dei social network. Clicca qui per leggere tutti i contributi.

Cosa altro sono ormai i popolarissimi droni che imperversano su tutti gli scacchieri militari?

Semmai il risvolto della notizia che merita più attenzione è il destino dei 120.000 soldati messi in cassa integrazione, diremmo in Italia.

Che ne sarà di loro?

E’ il tema breaking digital per eccellenza.

La disoccupazione tecnologica non è più una questione di scenario.

E’ il cuore del cosiddetto nowcasting, ossia della strategia del presente e non più del futuro.

I dati sono lo sfondo di ogni cronaca economica ormai da più di un ventennio.

La disoccupazione sale vertiginosamente nei momenti di crisi e non riprende proporzionalmente nei momenti di ripresa.

Questa sembra ormai la regola su cui si stanno attestando le bussole economiche del pianeta a tutte le latitudini.

Negli Usa, dove da ameno 18 mesi il cavallo beve, come si dice, e la produzione riprende con fenomeni ormai sostanziosi di reshoring, ossia di rientro di fabbriche nel paese, dopo l’ebrezza del decentramento produttivo dei due decenni precedenti, la disoccupazione non accenna a calare sotto la soglia del 5,4%.

Poco più della metà di quella europea, e poco meno di un terzo di quella italiana, dove siamo ai limiti della sopportazione.

Eppure, anche in Europa e nella stessa Italia le lancette degli indicatori euronomici non sono più sul rosso.

La saggistica globale si concentra su questo tema: con l’automazione quale lavoro?

Fa da riferimento il testo The Second Machine Age di Erik Brynjolfsson e Andrew Mc Afee che disegna uno scenario sconsolato.

Sullo sfondo una rivisitazione degli entusiasmi tecnologici.

Forse, sostiene in sostanza questa schiera di revisionisti digitali, abbiamo sbagliato ad aprire questo vaso di Pandora.

Diversa è la risposta di un filone tecnocratico, di netta impronta neo positivista, che replica indicando la mutazione antropologica dell’idea stessa di lavoro: non più fatica subalterna, ma attività intraprendente.

In Asia, dice Edward Tse nel suo saggio China’s Disrupotors, 12 milioni di nuovi imprenditori digitali stanno ridisegnando le mappe di una nuova società dello sviluppo.

Come sempre in questi casi, bisogna guardare agli interpreti umani della partita e non alle protesi strumentali. Come si stanno muovendo gli uomini sul pianeta e quale valore oggi privilegiano: la sicurezza? la libertà? l’autonomia? il benessere?

Da queste domande discenderà il nuovo equilibro sociale di cui la tecnologia è una variabile subordinata e non la causa scatenante.

Fenomeni come il nomadismo, l’invecchiamento, la globalizzazione, e l’individualizzazione nelle relazioni umane rendono indispensabili forme tecnologiche che sostituiscano le forme residenziali e statiche del lavoro. In questo contesto la possibilità che, come sostengono le ultime ricerche più accreditate, circa il 50%, più in Europa che negli Usa, degli attuali lavori saranno sostituiti da forme di automazione robotizzata diventa plausibile e indispensabile.

Come diventa logico che si realizzi la seconda parte di questi studi, ossia che i ragazzi di oggi lavoreranno in attività che al momento non esistono per almeno il 40%.

La vera divisione, spiega Manuel Castells, sarà fra lavori autoprogrammati e lavori etero programmati.

E’ quella la frontiera che determinerà le nuove gerarchie sociali e suddividerà anche i diversi modi di interpretare la stessa professione.

Vi saranno medici, giornalisti, avvocati, persino giudici che saranno poco più che protesi di sistemi intelligenti automatizzati, agenti intelligenti evoluti, e artigiani e manovali specializzati che diverranno veri e propri artisti, nuovi Benvenuto Cellini che si identificheranno con oggetti e servizi esclusivi, proprio come la Saliera del magico cesellatore rinascimentale.

Il motore di queste divisioni sarà il controllo dell’algoritmo.

Ossia la capacità di poter determinare qualità e logica di funzionamento del sistema automatico che adotteremo o al quale saremo destinati.

Questo processo lo possiamo già oggi osservare da vicino nel circuito del sistema informativo.

Nel mondo, e anche in Italia, gli apparati di produzione dei contenuti, in particolare delle news, sono al centro di un vorticoso processo di cosiddetto re-thinking, più che di superficiale re-design.

Si sta ripensando la forma e la natura delle intelligenze automatiche che lo animeranno.

La possibilità di identificare e negoziare questi meccanismi, senza delegare la loro implementazione ai fornitori sarà decisivo per capire come e quando sia possibile mantenere controllo e misura dei processi discrezionali che presiederanno alla nuova informazione digitale.

Non si tratta di rallentare il processo.

Tutt’altro, penso che vada accelerato per dargli la forma dell’unica intelligenza pianificatrice oggi disponibile: quella professionale.

Senza attendere che maturino altri assetti cognitivi esterni.

Una volta tanto la velocità ha il volto umano.

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