La tragedia di Rigopiano ha inevitabilmente portato sotto i riflettori l’informazione territoriale e in particolare il ruolo della TGR Rai sempre bistrattata e considerata solo fonte di sprechi.
Chi scrive denuncia subito il suo conflitto d’interessi: sono cresciuto professionalmente nella TGR RAI ed ho un legame viscerale con quella comunità. Come spesso accade agli innamorati, però, divento più esigente e intollerante quando mi imbatto in fenomeni che denunciano un decadimento largamente evitabile di quell’esperienza.
Mi riferisco all’uso della rete, e più specificatamente alla strategia sui social.
Vedendo quel florilegio di tweet e di post di un’allegra brigata di vice direttori, capo redattori, inviati e redattori, ognuno per proprio conto e per proprio interesse, mi viene in mente quel leggendario ordine di servizio della marina borbonica che la vulgata vuole che così reciti: ‘tutt’ chill’ che stanno a poppa vanno a prora, e chill’ che stann’ a prora vann’ a poppa, chill’ che stanno a dritta vanno a mancina e chill’ che stanno a mancina vann’ a dritta: tutti passanno per lu stesso pertuso’.
Il pertuso, per gli improvvidi che non sono avvezzi al vernacolo partenopeo è il buco e lo stretto passaggio, nella fattispecie è Twitter. Se avete tempo provate ad affacciarvi sulla piattaforma digitando @tgr.
Si apre un mondo di formicolanti e indecifrabili ossessi che annunciano i pezzi più mirabolanti. Ognuno assolutamente sganciato da qualsiasi logica o strategia di testata. Alcuni vice direttori fanno bella mostra di sé magnificando il lavoro del proprio settore, i capi redattori di sede si sforzano, con abnegazione e fatica preciso, di valorizzare il lavoro della propria redazione, i redattori cercano nella rete quella visibilità che l’ambito locale non dà.
Ma in tutto questo agitarsi, anche con fini comuni apprezzabili, l’azienda che dice?
E i direttori di testata?
E il sindacato dei giornalisti?
E gli stessi redattori?
Questo cinguettare forsennato e irregolare, che non dà certezza agli utenti e non guida l’ascolto ma assomiglia tanto a quegli improvvisi stormi che all’imbrunire in alcune città disegnano geometrie davvero straordinarie ma prive di ogni senso o regola, così, per istinto. Ma loro sono uccelli veri.
Mentre su Twitter ci sono invece giornalisti, e ci dovrebbe essere una strategia aziendale. Da 10 anni, non da un giorno, i social sono luoghi per ricostruire e valorizzare nuove community di ascolto e disegnare nuove traiettorie delle news.
A condizione, lo spiega lucidamente un documento di qualche mese fa di BBC, i social non siano visti come supporto, riserva o sfogatoio della TV, ma come ambito relazionale del tutto distinto e distante dal broadcast.
A partire dal fatto che sui social si sta per ascoltare e relazionarsi, non per riprodurre il meccanismo verticale della Tv, in cui il titolare dell’informazione distribuisce i suoi contenuti.
La successione dei piani aziendali – da Gubitosi a Verdelli ed ora al piano condiviso dal DG e dal consiglio di amministrazione – cosa ci dice a questo proposito?
Il responsabile del digitale Rai che pensa oltre che rispondere a chi lo interpella che non si occupa di contenuti editoriali?
E di cosa si occupa un responsabile del web della più grande azienda editoriale italiana: di condotti, energie rinnovabili, connessioni, luce elettrica?
Cosa assorbe le sue preziose energie?
In attesa del contratto di servizio, è davvero triste vedere un gigante spiaggiato, che si rotola sull’arena senza sapersi alzare. Il nodo riguarda il tema di base che da 15 anni è in discussione in Rai: la transizione al digitale implica una radicale e irreversibile innovazione di processo che precede e genera l’innovazione di prodotto.
E quest’innovazione di processo non è indolore né invisibile, deve cambiare la vita di quelli che ci lavorano, mutare le loro prerogative, e i loro profili professionali altrimenti è una truffa. Esattamente come Franceschiello faceva quando distribuiva i suoi tornesi ai lazzari.