L'analisi

BreakingDigital. Rai al bivio: la certezza Pippo Baudo o il rischio della sorpresa?

di Michele Mezza, (docente di Culture Digitali all’Università Federico II Napoli) - mediasenzamediatori.org |

L'obiettivo del servizio pubblico dovrebbe essere la serendipity, ossia la capacità di offrire ad ogni abbonato il valore aggiunto della sorpresa.

BreakingDigital, rubrica a cura di Michele Mezza (docente di Culture Digitali all’Università Federico II Napoli) –mediasenzamediatori.org. Ultimo libro pubblicato Giornalismi nella rete, per non essere sudditi di Facebook e Google,Donzelli editore. Analista dei processi digitali e in particolare delle contaminazioni social del mondo delle news. Clicca qui per leggere tutti i contributi.

Cosa significa quando una consultazione su un servizio pubblico rilevante coinvolge un numero di cittadini di poco superiore ai dipendenti dell’azienda titolare di quel servizio?

Il test in una qualsiasi scuola media, durante l’eventuale ripristinata ora di educazione civica non dovrebbe lasciare spazio a dubbi: o non è servizio o non è pubblico.

Al di là delle polemiche sul modo e sui termini della consultazione, il nodo che sta stringendo la Rai mi sembra questo: quando è servizio non è pubblico, quando è pubblico non è servizio.

L’esempio di questo palindromico paradosso è l’annuncio della conduzione di Domenica in a Pippo Baudo.

Intendiamoci si tratta di un grande, ancorché non giovanissimo, professionista su cui nulla si può e si deve dire. Detto questo, la scelta segnala il fatto che la Rai si piega ad una logica di marketing settoriale, occupando le nicchie di mercato che sembrano ai suoi dirigenti abbordabili, pertinenti e caratterizzanti.

Il super Pippo nazionale infatti è il testimonial naturale di un’ambizione di primato di Rai Uno nella fascia over 65enni e famiglie centro sud.

Esattamente dove oggi è collocato il brand della rete ammiraglia.

Qualcuno potrebbe dire: allora? Il servizio pubblico deve offrire ad aree meno servite dall’offerta comunicativa prodotti e linguaggi dedicati.

Io penso di no.

Io penso che un’azienda pubblica, tanto più se si avvia a rappresentare poco più di un quarto del mercato nazionale della TV, come confermano i recenti dati Agcom – ma molto meno se consideriamo il consumo audiovisivo nel suo complesso, dunque una realtà solida ma laterale – debba dare un senso alla sua rilevanza sul mercato correggendo e integrando le tendenze della prevalente offerta privata, con prodotti e soprattutto senso editoriale che vadano in una direzione diversa, se non proprio opposta. Mi spiego meglio: tanto il mercato ormai è caratterizzato da forme esasperate di on demand, in cui ognuno di noi viene blindato nel suo esclusivo e non superabile immaginario individuale, dove si sceglie di vedere solo quello che si conosce e si conosce solo quello che si vede, tanto più una strategia editoriale pubblica dovrebbe lavorare in senso opposto, per ricomporre, ricucire, e contaminare platee diverse.

L’obiettivo dovrebbe essere la serendipity, ossia la capacità di offrire ad ogni abbonato il valore aggiunto della sorpresa, di inciampare in cose, in temi, in contenuti, che non si conoscono o non si considerano, e dunque che estendono ed arricchiscono la propria preparazione.

I canali tematici, che ormai sempre più inseguono nicchie specifiche, con forma e programmazioni atomizzanti, sono commercialmente prodotti di qualità, ma socialmente non sono politiche culturali di una comunità nazionale.

Più che Sky l’esempio sono le offerte del bouquet Discovery, da Real TV ai due nuovi canali generalisti 8 e 9, ex MTV ed ex Deejay TV.

Stiamo parlando di prodotti di altissima scuola, realizzati, selezionati e programmati con lucida e armonica strategia.

Real TV è un feuilleton contemporaneo, dove si concatenano format estremi, per il loro settorialismo ovviamente, in cui frammenti di vita quotidiana diventano spettacolo e sottofondo per sprazzi di vita casalinga di giovani e mamme ambiziose.

A condizione che ognuno veda i suoi programmi separatamente, quasi fosse uno specchio di Borges, in cui si dialoga con la propria immagine.

I due nuovi canali proto-generalisti inaugurano la serie delle reti tematiche di massa. Film e reality, diventano occasioni per condividere con propri simili, dal punto di vista anagrafico e culturale esperienze diverse rispetto alla programmazione tradizionale.

In entrambi i casi il valore aggiunto è la separazione: il canale ha successo se separa la sua audience dal resto della comunità.

Al netto di ogni considerazione sociologica, questa strategia non può essere condivisa da un servizio pubblico, la cui mission, qualsiasi possa essere il mandato assegnato al nuovo vertice – sperando che mandato esplicito ci sia – non può che puntare a ricomporre platee trasversali, ad attraversare e coinvolgere figure sociali distinte e distanti fra loro.

In questa logica di segmentazione, basata sulla profilazione dell’audience, l’esasperata differenza fra i vari canali non permette di valorizzare una presenza pubblica. Il marketing è un linguaggio che nasce e si sviluppo, giustamente, nel mondo del profitto privato. Ed è un linguaggio omologante delle offerte, almeno dal punto di vista metodologico.

La difficoltà di gestire un servizio pubblico è proprio quella di non poter usare, come sostitutivo di una politica culturale, la scorciatoia del marketing.

Il che non significa lavorare sulla sovrapposizione, e sulla concorrenza interna, come era prima il palinsesto delle reti Rai.

Significa certo da un’anima riconoscibile a linguaggi diversi, e creare punti di incontro dove comunità distinte possano avere la legittima aspettativa di trovarsi a casa loro, di sentirsi offrire proposte usabili.

Ma questo non deve prescindere dall’ambizione di rimescolare periodicamente gli spettatori. La fiction della fase Andreatta da questo punto di vista ha offerto alcune opportunità.

Meno l’intrattenimento e gli spazi giornalistici.

E’ evidente che una delle componenti essenziali per ritrovare ascolti trasversali è l’attualità, costruita come attualità e non come un fotoromanzo monotematico che annulla tutte le notizie in un unico racconto sensazionalistico.

Dal caso terribile di Fermo alle storie degli imprenditori vittime a Dacca si poteva sperare in impennate diverse del servizio pubblico. Così come Rainews24 potrebbe essere uno straordinario frullatore di platee e ascolti, se si proponesse più legato all’attualità invece che alla rimasticatura redazionale.

La rete ci offre straordinarie risorse per connettersi con il mondo, tutto il mondo, in diretta sempre. Perché non usare il servizio pubblico come cruscotto per guardare il mondo, vicino e lontano, invece di lavorare su recinti separati a cui offrire identità contrapposte?

Un’opportunità può venire, anche per un pubblico meno verde, dall’integrazione con i social. Una recente sperimentazione di BBC (digiday.com) ha mostrato come usare soluzioni di Facebook per una narrazione coinvolgente.

Uno dei conduttori più esperti, Ros Atkins, ha utilizzato  Facebook, in occasione delle cronache della Brexit, ma anche per gli Europei di calcio, per costruirvi comunità specifiche, senza legarle necessariamente al programma tv.

Anzi, spiegano i curatori della BBC che è finito il tempo in cui la rete viene usata, in modo civettuolo, per arricchire i format televisivi: si tratta di linguaggi e relazioni complesse e diverse che vanno fatte vivere autonomamente, costruendo modelli originali di un sistema editoriale. L’obierttivo è quello di valorizzare i feedback del pubblico, orientando temi e toni della trattazione giornalistica.

Siamo ad una svolta reale nel processo di convergenza e a guidare non è più l’apparato televisivo, per tutte le età e le classi anagrafiche.

Il servizio pubblico deve scegliere il suo ruolo: comprimario o impresario.

Pippo Baudo potrebbe aiutare?

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