Sembrerebbe una giornata topica per la Pubblica Amministrazione quella di ieri, lunedì 18 luglio. In mattinata arrivano, uno dopo l’altra, le notizie del nuovo portale del Governo per la condivisione dei progetti di legge; poco dopo arriva l’annuncio che l’Agenzia delle Entrate risponderà in tempo reale tramite messenger di Facebook alle domande dei contribuenti.
Sembrerebbe una accelerazione, di più una vera impennata, sulla strada della modernizzazione digitale degli apparati pubblici.
Qualche dubbio si affaccia quando nel pomeriggio, alla I Commissione della Camera (Affari Costituzionali) va in scena la consultazione delle parti sociali e professionali sullo schema di decreto legge del Governo per la digitalizzazione della PA, piatto forte i rilievi sul nuovo CAD (Codice dell’Amministrazione Digitale): alle domande dei vari interlocutori (fra gli altri rappresentanti del Consiglio Nazionale Utenti e consumatori, Confindustria digitale, ordine dei Notai, Giuristi digitali, Anorc ecc) appare subito evidente che i membri della Commissione che si sta apprestando ad approvare, in esecuzione della delega data al Governo dalla Camera, l’ennesimo provvedimento per aggiornare tecnologicamente le burocrazie pubbliche, nulla sanno dei due eventi della mattinata.
Poco male si direbbe, se non fosse che le due notizie della mattina riguardano esattamente la materia che è alla base del decreto legge in discussione alla Camera.
Come è possibile che un pezzo del Parlamento, della maggioranza di Governo, stia discutendo forme e contenuti della digitalizzazione degli apparati pubblici – e dunque delle relazioni fra Stato, cittadini e imprese – mentre altri pezzi della stessa maggioranza, da una parte creino uno spazio, come il portale del governo, dove confrontarsi permanentemente fra governanti e governati su ogni provvedimento; e dall’altra, un settore strategico, come l’Agenzia delle Entrate, decida di procedere per suo conto, e addirittura adotti un’app di Facebook per far transitare dati sensibili del fisco nazionale?
La domanda rimane sospesa ma fa intendere che ancora una volta si procede in ordine sparso lasciando poche speranze sulla buona riuscita delle tre operazioni.
Tanto più che il decreto governativo in discussione alla camera affronta direttamente temi strategici del rapporto fra cittadini e uffici pubblici: dalla funzione del mitologico SPID (Sistema pubblico di identità digitale), l’identità digitale che al momento sembra interessare solo 80 mila dei milioni di italiani che dovrebbero adottarla, al domicilio digitale, all’interoperabilità fra sistemi e piattaforme dei diversi uffici pubblici, fino all’abrogazione dell’obbligo dei cittadini di conservare documenti che sono nei data base pubblici.
Un provvedimento ambizioso e fondamentale, che va a scrollare ancora una volta l’albero della PA.
Ma, al netto del rapporto con quello che lo stesso Governo fa con la mano sinistra, rimangono ancora numerosi i buchi neri nel provvedimento governativo. Intanto la sua filosofia, ancora troppo continuista rispetto al passato, non si coglie una specificità del digitale nelle architetture organizzative e nelle logiche relazionali, insomma si continua con strutture lineari e verticali, dove gli utenti rimangono destinatari finali del servizio.
Completamente assente qualsiasi forma di sussidiarietà da parte degli utenti o opportunità di confronto e di condivisione dei dati.
Assente anche ogni riflessione sulla natura del servizio digitale, ossia sulla sua forma di intelligenza e di linguaggio e non di meccanica burocratica. Motore di questa forma digitale è oggi il software, meglio ancora l’algoritmo.
Con quali logiche e procedure la PA adotta e selezione intelligenze che inevitabilmente interferiscono sul comportamento e il pensiero degli utenti?
Chi controlla queste scelte e che strategia si indicano alla PA: per quanto riguarda ad esempio la tracciabilità dei dati sensibili?
Da quello che fa ad esempio l’Agenzia delle Entrate, che decide, non si sa quanto consapevolmente, di consegnare a Facebook i dati fiscali degli italiani, sembra che nessuna indicazione venga dal vertice.
Il cittadino deve sapere per ogni attività pubblica e per ogni ufficio che software viene usato, chi lo ha sviluppato e chi ne detiene il controllo reale. E’ necessario introdurre una sorta di bollino blu dell’algoritmo che faccia intendere di chi sia l’intelligenza applicata al servizio in questione.
Questa inconsapevolezza che traspare sul potere del controllo dei dati la ritroviamo anche nel capitolo sulla sicurezza del sistema che nel provvedimento di legge viene interpretato, anacronisticamente, solo in termini di sbarrare il passo alle incursioni dall’esterno.
Una visione patrimoniale dei dati.
Manca un riferimento al fatto che, per un apparato pubblico, sicurezza significa anche difesa della propria autonomia e sovranità rispetto ai fornitori delle intelligenze o delle memorie. Non a caso i rappresentanti sindacali presenti all’incontro hanno chiesto chi controllerà i dati delle centinaia di migliaia di italiani che si sono serviti di Poste Italiane nel caso dell’imminente privatizzazione?
Silenzio.
Come in silenzio sono rimasti i parlamentari alla domanda su chi controlla i dati stipati nei data base cloud della PA: che in larga parte sono controllati da Amazon?
Un altro aspetto problematico, l’ennesimo, riguarda l’annoso tema dell’open data. Il testo di legge infatti assicura al cittadino il diritto di non dover conservare copia di un documento archiviato digitalmente dalla PA: ma non ribadisce, prevedendo anche sanzioni per gli inadempienti, il diritto a non dover produrre documenti che sono conservati negli archivi pubblici nemmeno se a chiederlo sono i titolari di quegli stessi archivi. Siamo ancora a rimpiangere la legge Bassanini del 2000, rimasta inapplicata.
Infine un altro dato strutturale: il digitale è materia instabile, permanentemente in ebollizione, come procedere legislativamente? Possiamo ogni sei mesi aggiornare le norme? Questo è il tipico caso in cui il digitale rompe le compatibilità dell’analogico, imponendo al legislatore uno scatto di fantasia. Una soluzione ce lo propone il mondo open source: affidare ai cittadini mediante community identificabili e documentabili l’aggiornamento delle soluzioni, che devono poi essere organizzate dagli apparati mediante un lavoro in social network. Certo non è né facile né immediato ma è l’unica strada per non legiferare ad ogni innovazione.
Così come è necessario uno sforzo per organizzare i processi di innovazione senza allungare la filiera burocratica, come invece indica il testo di legge che istituisce uffici di coordinamento digitale accanto a quelli tradizionali: l’innovazione tecnologica non è un genere a sé stante ma una lingua in cui ritradurre tutte le nostre relazioni: tutti la devono parlare e non solo gli esperti. Così si è invece fatto fino ad ora, e così si è fallito.