“Crediamo di poter diventare la prima schermata per poter vedere tutto quello che sta accadendo ora”. Così Jack Dorsey, il CEO di Twitter, ha commentato l’esperienza della prima diretta live di uno spettacolo televisivo del social dell’uccellino, che ha trasmesso una delle 10 partite del campionato nazionale USA di Football americano di cui ha acquistato i diritti.
Più di 2 milioni di utenti, almeno 243.000 in contemporanea per più di un minuto. Un fatturato pubblicitario di 10 volte i costi.
Ma soprattutto un nuovo modo di immaginare la fruizione televisiva. In mobilità e in partecipazione. Vedere e discutere la partita in diretta mentre sei in metropolitana. Così è stata sintetizzata l’esperienza.
Se un difetto vogliamo trovargli, hanno commentato i dirigenti del settore live di Twitter, è che abbiamo realizzato un collegamento troppo televisivo, troppo poco social, con meno interattività di quanto sia possibile e richiesta.
Entriamo così nel campo dell’analisi psico-antropologica, che è davvero quello che sta orientando la nuova offerta di connessione. Il cuore del fenomeno della riorganizzazione dei media è proprio questo gioco ad inseguirsi fra una domanda sociale che disegna nuove relazioni e nuovi modelli di partecipazione nella produzione di comunicazione e i sistemi algoritmici, che preludono e prefigurano comportamenti affini alla logica delle piattaforme.
Dorsey pone un obbiettivo: diventare il media del Nowstreaming. Trasformare Twitter in un videocitofono di comunità e territori per sintonizzarsi su quanto accade ora.
Ma qual è l’oggetto che dà valore e sostanza alla trasmissione?
Mostrare lo spettacolo o integrare lo spettacolo con l’interscambio di contenuti prodotti dagli utenti?
La delusione dei dirigenti di Twitter per un format troppo televisivo sembra far pensare che la seconda sia la vera prospettiva. Ed anch’io credo che stiamo andando in quella direzione. L’intera crisi dei media di massa ci dice che l’ambizione degli utenti ad interferire (e interagire) con le redazioni è l’origine di una nuova pratica sociale che produce informazione.
Su questa strada si stanno incamminando le grandi piattaforme digitali, da Apple a Netflix ad Amazon, che legano le community dei propri utenti ad un’offerta di servizi e contenuti che si basa sulla lettura dei desideri e dei caratteri degli stessi utenti. E’ il cerchio che aveva descritto, caricaturalmente, Dave Eggers nel suo romanzo apocalittico sul social che ingoia il mondo (Il Cerchio, Feltrinelli 2014).
A guidare questo processo non è il content ma la potenza dell’algoritmo. Potremmo dire, come ha indicato proprio recentemente uno studio della BBC, che la Tv è il suo algoritmo, si identifica con la sua logica di calcolo. Ed è in questo buco nero che va ritrovata una forza di riorganizzazione di aziende e comunità per esprimere una vera autonomia culturale nella capacità di elaborare o negoziare propri algoritmi.
Oggi è in scena un pertinente convegno promosso da Mondo Operaio, una prestigiosa testata di cultura socialista e dalla comunità Infocivica che lavora da tempo su una modernizzazione dell’idea di servizio pubblico televisivo. Il tema è la Tv europea. Un tema che non potrà prescindere proprio dalle riflessioni che l’esperienza di Twitter innesta nella società.
Si tratta di capire se si pensa ad una Tv che parli agli Europei che decidono oggi o a quelli che nascono oggi? Nel primo caso, torniamo a vagheggiare una Tv tradizionale, un modello broadcasting, che si troverebbe subito alle prese, ad esempio, con i nodi tipici dell’Europa: come raccontare l’ultimo vertice di Bratislavia? Da che punto di vista? Mentre nel secondo caso si tratterebbe di pensare non ad una redazione tv ma ad una piattaforma televisiva che segmenti e intrecci community e culture anche strutturalmente differenti.
Non solo la mobilità, e l’interattività, sono i motori dei nuovi modello di social tv, ma soprattutto le differenze. Che vengono colte e formattate dalle forme automatiche degli algoritmi semantici.
Vediamo come anche in politica, nella faticosa e logorante discussione sui nuovi modelli di partito e di raccolta di un consenso democratico, diventi difficile ipotizzare forti identità.
La società digitale è una moltitudine, non una massa e non più un’opinione pubblica, ma uno sciame, dove non si procede per informazioni prescrittive, come spiega il sociologo sud coreano Byung-Chul Han nel suo saggio Nello Sciame, per comunicazione cumulativa. E per autonomie dagli algoritmi altrui.