La fiction su ‘Studio Uno’, che al di là degli ascolti, comunque rappresenta un’intrigante uso della propria memoria da parte del servizio pubblico, programmata subito dopo i fasti di Sanremo ci dà l’occasione per constatare come nel campo del cosiddetto varietà, o comunque del grande show, poco sia realmente cambiato in termini di genetica e sviluppo del prodotto, e soprattutto della popolazione delle figure professionali del meccanismo televisivo.
La produzione centralizzata in uno studio, o un teatro, con una grammatica da grande schermo, e una sequenza di artisti che si alternano in scena rimane uno scheletro ancora funzionale per il format di intrattenimento di cui la Rai ha la massima padronanza.
Quest’anno Sanremo ha segnalato con i suoi picchi social, davvero una straordinaria performance, anche la vitalità di andare oltre se stesso, e forse di indicare, e di pilotare, la strada per il proprio superamento. Ma la base, la fabbrica, è rimasta sostanzialmente quella pensata da Guido Sacerdoti e Antonello Falqui, i due geniali autori del grande show del sabato sera del 1960.
Tutt’altra musica invece quando si deve ripensare l’altra grande fabbrica dell’azienda: l’informazione.
Qui siamo molto vicini al dramma, come ha mostrato il triste epilogo dell’avventura in Rai di Verdelli, l’uomo a cui il direttore generale, amministratore delegato Campo Dall’Orto aveva affidato la riunificazione e adeguamento del sistema giornalistico aziendale.
“Ogni processo di modernizzazione sociale avviene con travaglio, anche con tensioni sociali, pagando prezzi elevati di conflittualità”.
Sembra strano che nei mille coriandoli di battute e battutacce sull’ormai tramontato piano Verdelli sull’informazione Rai, nessuno abbia colto la tragica predestinazione che l’autore del piano segnalava con questa citazione del giuslavorista Marco Biagi, assassinato dalle Brigate Rosse.
Sembra quasi che Verdelli, mentre scriveva il suo piano, sapesse che si apprestava ad essere professionalmente giustiziato dal partito RAI.
L’attacco culturale che lui ha sferrato è stato duro e senz’appello: a Saxa Rubra l’orologio si è rotto.
Così si legge nel documento respinto dal consiglio di amministrazione, e rigettato dal sindacato dei giornalisti.
Una sentenza basata semplicemente sul confronto con quanto avviene da 15 anni in tutta Europa.
Verdelli coglie come emblema della refrattarietà della fabbrica delle news di ogni tentativo di riforma l’impermeabilità che il sistema giornalistico ha avuto rispetto al canale All News.
“Sembra che per i Tg Rainews24 non esista”, nota il documento. Lì infatti è il buco nero che ha ingoiato le ambizioni di riforma delle redazioni. Nel ‘99, quando, primi in Europa, fu pensato ed allestito il canale – con la prima news room automatizzata e la prima deroga al contratto giornalistico che fu concordata con l’Usigrai, dato questo che Verdelli dimentica – la Rai si poneva in testa al convoglio di riorganizzazione delle figure giornalistiche a livello europeo.
Poi si scatenò subito quel “travaglio” di cui parlava Marco Biagi.
Intanto il vertice aziendale non seppe riconoscere e difendere quella sua creatura, lasciandola a mezz’aria, senza collocarla né in testa né in coda al treno di produzione delle news. Poi i giornalisti rivendicavano i fogli di viaggio, altro che post produzione, cosa che oggi è la bandiera di BBC. Infine la pancia aziendale che voleva ricondurre quei processi innovativi nei solchi delle diverse competenze: l’innovazione tecnologica agli ingegneri, i giornalisti scrivano le notizie.
Da allora tutto si è fermato. Ma lo stesso piano Verdelli non sembra procedere con determinazione. Insiste molto sulla distribuzione, sulla capacità di stare su tutte le piattaforme, sulla centralità del mobile, ma non si approfondisce la vera rivoluzione della produzione. Sollecita nuove figure come il redattore territoriale multimediale, ma non consuma la rottura con il vecchio mondo dell’artigianato giornalistico, come invece ha fatto ad esempio nella sua riforma Lionel Barber, l’ex direttore del Financial Time. Barber, nella sua lettera del 2013 alla redazione, sollecita un “disancoramento dei giornalisti dalle notizie” e segnala come oggi il tema sia il modo in cui i giornalisti costruiscono attorno all’informazioni delle community con i propri lettori. Insomma la novità non sono i devices ma le relazioni sociali, le ambizioni dei lettori ad affiancare il giornalista come autore della propria informazione. Questo è il motore del terremoto che sta squassando la categoria giornalistica: la perdita del primato delle news. Un terremoto che invece un servizio pubblico dovrebbe usare proprio per valorizzare la sua diversità sul mercato, il suo essere strumento di dialogo, di conversazione istituzionale con il Paese.
Ma come il sacrificio di Marco Biagi ci ha insegnato, il prezzo da pagare è proprio alto per imboccare questa strada. Meglio rimanere fra le ballerine e le conduttrici, ci si diverte di più e si rischia di meno.