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BreakingDigital. La lezione di Matera per la Rai: il tweet molesto e un nuovo pensiero digitale

di Michele Mezza, (docente di Culture Digitali all’Università Federico II Napoli) - mediasenzamediatori.org |

Manca un pensiero aziendale, e forse ancora di più italiano, sui nuovi linguaggi digitali. E’ questa l’origine vera dell’incidente di Matera a Capodanno

BreakingDigital, rubrica a cura di Michele Mezza (docente di Culture Digitali all’Università Federico II Napoli) –mediasenzamediatori.org. Ultimo libro pubblicato Giornalismi nella rete, per non essere sudditi di Facebook e Google,Donzelli editore. Analista dei processi digitali e in particolare delle contaminazioni social del mondo delle news. Clicca qui per leggere tutti i contributi.

Il tweet di Matera potrebbe entrare nella storia della Rai.

E non tanto per la misera logica per cui l’incidente sarebbe un pretesto per un repulisti ai vertici di reti e testate, quanto perché finalmente, anche se con grande fatica, si sta cercando di cogliere il cuore del problema posto dalla svista del povero funzionario di turno: il tema della specificità dei linguaggi digitali.

Appare francamente singolare che un consigliere di amministrazione, accreditato di studi e letture specializzate, come la professoressa Rita Borioni in una sua recente intervista a Repubblica, consideri i tweet alla stregua delle dediche delle radio locali.

E’ questa l’origine vera dell’incidente di Matera: manca un pensiero aziendale, e forse ancora di più italiano, sui linguaggi digitali. E si cerca di riparare procedendo con pacchiane trasposizioni di categorie e valori del vecchio mondo analogico nel nuovo universo digitale.

La rete, è stucchevole ripeterlo, ma pare non inutile a giudicare dalle trombonate d’annata che si leggono da parte di accreditati addetti ai lavori, non è un medium, non è un surrogato di TV e giornali, è un modo di vivere, come spiega lucidamente Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica, in un suo intervento su Wired italiano.

I social ne sono oggi l’esemplificazione più evidente.

Dunque non vale l’idea di omologarli alle regole della comunicazione tradizionale, valutandoli in base all’attendibilità o alla qualità.

E’ il flusso, il loro scorrere che li definisce e li giustifica, di per sé.

Due sono le caratteristiche che li contrassegna: da un lato, la condivisione come modo di trasmetterei messaggi, esattamente come nella vita reale, in cui nel comunicare si procede per relazioni dirette; dall’altro, la velocità come linguaggio e non come patologia, come paventa qualcuno che vorrebbe fermare il mondo per scendere.

La convergenza di TV e rete da tempo sta mostrando l’incongruenza dei due mondi.

La TV rimane il mondo della mediazione lenta e gerarchizzata, sempre segnata dalla sua vocazione distributiva che va da uno a molti, mentre la rete nel suo canalizzare la vita che diventa comunicazione e non viceversa, procede per contaminazioni virali, in un permanente flusso veloce.

L’ibridazione dei due codici è materia complessa che non può, come spesso continua a capitare in Rai, essere delegata a qualche acrobazia tecnica per “far vedere Internet in Tv”, come ancora si dice.

Intanto la Televisione, entrando in questo nuovo ambito culturale, ne deve adottare i paradigmi e gli stilemi, e non solo le battute.

Soprattutto deve riflettere sulla condizione acronica in cui si viene a trovare, cercando, essa mezzo lento e mediato, di canalizzare flussi veloci e disintermediati.

Questo è il primo punto su cui non si è speso nemmeno un minuto di discussione in Rai in questi anni.

Ricordo quando nell’ormai primordiale 1999 lanciammo RAINews24, la discussione con i tecnici della produzione e poi, sollecitati da questi, con i dirigenti aziendali, sull’uso degli scroll in sovraimpressione.

Non erano allora messaggi che venivano da un pubblico incontrollato, ma semplici titoli carpiti dalla rete. E già allora si poneva il problema del controllo e dei filtri.

E già allora si cominciò a discutere sugli ambiti di extra-aziendalità che la rete impone. Certo non significa andare a briglia sciolte, ma comprendere che l’interattività con ambienti esterni, questa è la magia che ancora turba la produzione TV, non può avvenire mediante un’omologazione dei modelli e dei comportamenti del broadcasting, pensato e costruito sulla propria autoreferenzialità industriale.

La radio in questo è stata una grande palestra.

Da Bertold Brecht allo stesso Marshall McLuhan, passando per Antonio Gramsci e tutta la scuola francofortese, la permeabilità del palinsesto radiofonico alle pressioni esterne ha costretto la stessa filosofia a riflettere sulla relatività dell’autore.

Questo è forse il passaggio su cui una realtà come quella del servizio pubblico dovrebbe spendersi per dare alla sua missione nazionale nerbo e spessore: una riflessione autonoma e originale sull’impatto della rete sulle forme della comunicazione audiovisiva.

Altro che limitarsi a sospendere un funzionario, o ancora peggio, ad esorcizzare il problema, sospendendo l’interattività.

Insieme alla velocità, l’altro tema che la convergenza multimediale impone è la responsabilità, o meglio ancora, il ruolo della mediazione.

Anche in questo caso non ci si può limitare ad una semplice trasposizione di regole e procedure dal vecchio al nuovo mondo. Perché semplicemente non reggono. Ma non perché, come traspare in molti commenti di questi giorni, la rete sia popolata da selvaggi, o solleciti gli istinti peggiori. Quanto, ancora una volta, perché la rete non è linguaggio comunicativo, ma relazione sociale.

Dunque aprendosi alla rete ci si apre alla vita così come è.

E bisogna saperlo e comportarsi di conseguenza.

Siamo al classico collo di bottiglia, dove indirizzare un flusso d’acqua impetuoso. Inevitabilmente ci si bagna e anche tanto a stare nei dintorni. E torna il concetto del flusso.

Questo è l’altro snodo teorico e concettuale fondante del digitale: tutto viene organizzato in flussi veloci, e si rompe la geometria statica degli spazi chiusi: la pagina, il palinsesto, la scaletta.

La comunicazione analogica, stampata o elettronica, si organizza per luoghi recintati, per piani regolatori di spazi pianificati, come la pagina del giornale, o il sommario di una rivista, o il palinsesto di una rete Tv o la scaletta preordinata di uno spettacolo.

Oggetti concettuali statici, risultanti dall’azione mediatrice dell’autore, o del responsabile che organizza concettualmente i contenuti nell’ambito di questi sistemi chiusi, selezionati, pianificati e poi distribuiti. Questa è la storia del giornalismo, o della TV.

Su questa logica si è cadenzata l’organizzazione di questi apparati, generando figure produttive e gerarchie professionali legate proprio a questi oggetti: la redazione che impagina, il capo redattore che organizza e controlla, il direttore di rete che allestisce il palinsesto, il programmista che prepara la scaletta.

Una logica fordista, da catena di montaggio creativa che ha guidato per tre secoli il sistema della comunicazione, nelle sue varie versioni tecnologiche.

Su tutti imperava l’originalità del prodotto, unico ed esclusivo.

Poi Walter Benjamin ci ha avvertiti, ma siamo ancora alla fine degli anni Trenta, non è un colpo di cannone di questi mesi, che l’opera d’arte entrando nella fase della sua riproducibilità tecnica, perdeva l’esclusività, si diluiva il rapporto organico con il suo autore. Si moltiplicava invece il rapporto con gli organizzatori e i distributori, ed infine, ancora Benjamin lo intuì, si innestava un processo che avrebbe insidiato persino il primato  del mediatore culturale che sarebbe stato sempre più insidiato dal suo utente.

Per decenni ci illudemmo che si parlava di ristrette avanguardie, di fumisticherie ideologizzanti.

Poi venne il personal computer, e dopo affiorò la rete.

Come spiega Lev Manovich, uno dei più originali guru delle interfacce visive, “I nuovi paradigmi emersi negli anni 2000 infatti non riguardano nuove tipologie di software. Riguardano invece l’incremento esponenziale del numero di utenti e la ridefinizione del web come nuova piattaforma universale per la circolazione di contenuti non professionali”.

Questo è lo tsunami che sta ancora sconvolgendo il mercato.

Non si tratta delle sirene tecnologiche che distolgono il buon pubblico televisivo di una volta, è proprio il pubblico il gorgo da cui prende forza il turbine.

E’ l’ambizione di una comunità sempre più preparata, ambiziosa, pretenziosa e intraprendente che non accetta più i limiti di schemi chiusi: la pagina, il palinsesto, la scaletta.

Di fronte a questa platea, ed è questo il nodo che dovrebbe suggerire alla RAI l’incidente di Matera, non ci si pone con un atteggiamento puramente adattivo, che mira a far rientrare il dentifricio nel tubetto. Bisogna coglierne le specificità.

A cominciare dall’ambiente.

Se si vuole rendere un’esperienza interattiva bisogna stare nella rete, produrre e costruire in digitale lo spettacolo, e non solo sezionare lo schermo, lasciando una semplice striscia all’esibizione dei selvaggi.

Produrre in digitale vuol dire lavorare direttamente nel server, costruire le playlist di messa in onda sul web, e prevedere i corredi di software e professionali per gestire il flusso.

Come mai su Youtube non si vedono filmati porno fuori posto?

Come mai nelle compilation musicali in streaming non irrompono dall’esterno buontemponi?

Perché sono modelli digitali costruiti e pensati per convivere con le turbolenze della rete.

Non, come a Matera, macchinose produzioni tradizionali, in cui fa bella mostra una finestra digitale.

Questa è la vera lezione di Matera.

Fa teneramente sorridere l’idea di chi pensa che basti una bella stretta di vite ai programmi, con un taglio di tutte le pulsioni interattive e qualche controllo in più per limitare quel flusso pieno di quelle si considerano “dediche di provincia”.

Non sono le dediche o le bestemmie che sconvolgono, ma è il format del flusso che sta irrompendo a mutare forma e contenuti della comunicazione.

Le news diventeranno flusso attraverso le soluzioni streaming come Instant Articles di Facebook, e perderanno il know-how critico dell’impaginazione giornalistica per diventare una striscia personalizzata che raggiungerà ogni singolo utente del social in base alla propria profilazione.

Il video e la musica sono flusso mediante gli streaming permanenti di Spotyfy o Storify, e gli autori saranno soppiantati dai disk jockey come valore aggiunto.

La stessa letteratura sta diventando flusso nelle piattaforme di eBook in streaming.

Le piattaforme televisive digitali, come Netflix e Sky proprio nelle feste natalizie hanno celebrato un’orgia di flusso organizzando offerte di maratone di serial alluvionali, lunga da 10 a 15 ore.  Si tratta del cosidetto Binge watching, strisce infinite di puntate della stessa serie che costruiscono un unico inesauribile flusso.

Cambia il modo di vedere e, di conseguenza, di progettare, l’offerta di TV.

In questo flusso si crea una nuova dimensione spazio temporale, staccata dalla classica sequenza logica, guidata, nel caso delle news dalla tempestività cronologica, nel caso delle narrazioni dalla trama.

Questa TV non si guarda ma si naviga.

Non è più broadcasting ma browsing.

Si entra e si esce in base ad una propria tempistica.

E l’interattività sarà l’unico indice di successo del prodotto.

Roba forte per avviare un vero ripensamento completo della televisione pubblica.

E il nuovo capo azienda dovrebbe ringraziare il Twitter molesto per avergli dato non il pretesto di insediare un nuovo direttore, ma di pretendere un nuovo pensiero della RAI.

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