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BreakingDigital. La copertina digitale di Linus, una storia lunga 50 anni

Michele Mezza

Questo spazio di solito, segnala eventi e soluzioni destinate a mutare lo scenario multimediale, il nostro Breakingdigital.

Questa volta facciamo un salto invece all’indietro, e cerchiamo un segno del futuro nel passato, un passato anche lontano come l’aprile del 1965, esattamente 50 anni fa, quando arrivò per la prima volta in edicola uno strano e, per quel tempo, eccentrico magazine: Linus.

BreakingDigital, rubrica a cura di Michele Mezza (docente di Culture Digitali all’Università Federico II Napoli) – mediasenzamediatori.org. Analisi e approfondimenti sul mondo dei media e del digitale, con particolare attenzione alle nuove tendenze della galassia multimediale e dei social network. Clicca qui per leggere tutti i contributi.

Ai giovani che ci leggono oggi il ricordo dice poco, a chi invece allora andava già a scuola, forse quella testata evoca ancora forti emozioni.

E’ stata una rivista totem, che per 40 anni ha accompagnato e sostenuto la crescita di almeno 10 generazioni di innovatori.

Linus, con il suo sofisticato font Grotesk in grassetto, la sua copertina verde, e soprattutto quel tenero, impertinente e stralunato Charlie Brown che altro non era se non un bonsai di nerd in provetta.

Linus infatti era un magazine di fumetti di bambini per adulti.

La base erano le strisce dei Penauts di Shultz che dagli Stati Uniti arrivavano nelle nostre città, inizialmente attraverso le pagine de Il Giorno, il rivoluzionario quotidiano milanese che a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta rinnovò il mercato giornalistico italiano.

Poi dal Giorno alle pagine di una rivista tutta dedicata ai fumetti.

In realtà Linus fu molto di più di un periodico di fumetti.

Riletta oggi, appare evidente che quella rivista annunciava l’avvicinarsi di uno vero tsunami sociale come 15 anni dopo si rivelò essere l’ondata digitale.

Linus fu la bandiera, il feticcio del formarsi, nelle catacombe metropolitane delle città italiane, dove veniva distribuito prevalentemente, della generazione che avrebbe poi dato corpo al mondo informatico e digitale italiano.

Quell’insieme di professionisti, ambiziosi, globalizzati, competitivi e libertari, che sfiorati dal movimento del ‘68, si ritrovarono nei gorghi della insorgente società della comunicazione: giornalisti, politici, sindacalisti, pubblicitari, sociologi e sondaggisti che cominciavano a formicolare nei centri storici di Milano e Roma.

Ricordiamo, siamo nel 1965, ovvero in un’Italia che si trova ancora in equilibrio sul miracolo economico, che in pochi anni ha trasformato un paese contadino e arretrato in una comunità urbana e freneticamente modernizzante.

E’ quella l’Italia del Programma 101 della Olivetti, dell’ENI di Enrico Mattei, delle centrali elettronucleari di Ippolito, del primo gabinetto di genetica europeo di Buzzati-Traverso, dei lanci di satelliti nello spazio con il comandante Broglio, del premio Nobel della plastica come Giulio Natta.

Sempre in quegli anni l’Italia è il paese che fa sognare il mondo con il suo cinema presente in tutti i grandi festival internazionali con opere come Il Gattopardo di Luchino Visconti o 8 e 1/2 di Federico Fellini o Le Mani sulla città di Francesco Rosi.

Un paese che si trova al vertice della ripresa europea, non avendolo cercato né voluto.

Infatti, il paese in poco tempo si vede ricacciato nella completa subalternità.

Mattei muore nel 1962 in un in incidente aereo che fa ancora discutere.

La pionieristica divisione elettronica della Olivetti viene spiantata e regalata alla General Electric. Ippolito, coinvolto in un maldestro scandalo, è arrestato e le sue centrali nucleari che minacciavano i padroni del petrolio, chiuse.

Il primato della plastica non riusciamo a sfruttarlo.

Un paese che in poco tempo passa dal miracolo alla delusione.

Ma l’ambizione solleticata non può essere cancellata.

Milano, Torino, Roma sono città che si trovano proiettate sulla scena globale: industria, cinema, università, tecnologie.

Già migliaia e migliaia di giovani spingono per trovare un proprio spazio al sole.

E’ questa la platea a cui si rivolgerà Linus, cominciando a dare a questi giovani pillole di un nuovo mondo, fatto di fumetti, ironie, scetticismi, psicodrammi, ma anche speranze e convinzioni che si possa vincere anche da soli, anche senza uno Stato che ti protegga e ti supporti.

Iniziano la prime forme di dialogo fra lettori e redazione: Oreste del Buono, grande intellettuale metropolitano, apre una innovativa rubrica di lettere al direttore.

Dai fumetti si comincia a spaziare alla letteratura, alla musica, che esplode come forma di networking, diremmo oggi.

E negli anni successivi, 1975-76, si comincia a parlare di strani marchingegni che pensano: i computer.

Linus fu il primo organo dei makers italiani.

Il primo spazio in cui prese forma e coscienza l’idea che la creatività poteva diventare economia e futuro.

Fuori dalle sue pagine erano tempi duri: conflittualità, antagonismi, rancori, e poi anche terrorismo.

La rivista non ignorò, ma non si fece travolgere, mantenendo la barra sul suo orizzonte: ironia e futuro.

Lo stesso protagonista, l’apparentemente dimesso Charlie Brown, con la sua copertina, un vero talismano che gli dava poi la sicurezza della verità, e soprattutto rompeva la minaccia dell’isolamento, collegandolo con il mondo, già anticipava l’ansia comunicativa dei social, già ci annunciava il sortilegio di Facebook.

Quell’Italia, con i suoi fremiti di massa che sarebbero stati celebrati nel decennio 1970/1980, stava invece incubando un proliferare di istinti individualistici, con i suoi primi personal computer, i suoi distretti produttivi, i suoi cespugli innovativi, i suoi artigiani globali.

Quell’Italia sarebbe stata meglio descritta e raccontata leggendo Linus più che i saggi e la letteratura politica del tempo.

Italo Calvino lo fece, scrisse e lesse Linus e, proprio nel 1965, polemizzando con Pier Paolo Pasolini sulle forme del linguaggio tecnologico che allora faceva timidamente capolino nelle aziende e nelle scuole tecniche, scriveva che l’italiano “…per rimanere vivo doveva ibridarsi con la tecnologia“.

Ma perché, vi chiederete, ce lo racconti?

Una botta di nostalgia di un ottuagenario?

Forse anche questo.

Ma in particolare, mi pare utile usare Linus come un vero Breakindigital, per mostrare come il mondo digitale sia una storia italiana.

Soprattutto sia una storia umana, che nasce da molto più vicino della Silicon Valley.

Una storia che aveva affondato radici profonde nella nostra cultura.

E che quanto sta accadendo oggi, con lo stravolgimento di costumi, culture, comportamenti e valori, non sia il segno di un predominio improvviso di tecnologie estranee.

Tutt’altro, la società della conoscenza ha avuto una lunga incubazione, soprattutto in Italia.

La rete è per questo una storia italiana.

E in nessun modo possiamo nasconderci dietro la sua disumanità ed estraneità.

Come Linus si nasconde dietro la sua copertina.

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