L’Italia digitalmente non esiste. Siamo un mucchio selvaggio anche di matematici e softweristi, ma non siamo uno stato.
Dopo la retorica delle autostrade digitali, stiamo scoprendo che sono i tir, ossia la potenza di trasporto e di carico sicura, che decidono la vita e i trasporti di un paese.
E così, finalmente stiamo scoprendo, dopo anni passati a predicare bolsamente la connettività come base e sostanza della vita in rete, che la spina dorsale di un paese, la sua sovranità, la sua dignità al tempo di internet, come dice Jaron Lanier, sono i suoi algoritmi.
Non esiste uno stato che non abbia il controllo e il comando esclusivo della potenza di calcolo che organizza l’intera vita sociale di una comunità nazionale.
Perfino la più grande super potenza del mondo, la patria della Silicon Valley, come sono gli Stati Uniti, si scopre un bersaglio vulnerabile per qualsiasi banda di hacker ben sorretti e pilotati.
Certo che gli USA hanno fin troppo sviluppata l’idea di essere i padroni dei propri algoritmi, e anche di quelli degli altri. Ma non sembrano adeguarsi all’idea che la rete non garantisce le gerarchie, ma le rovescia continuamente, sconvolgendo con il decentramento continuo della capacità di calcolo, le relazioni fra soggetti competitivi. Anche fra gli Stati.
Per questo si sta delineando una contrapposizione fra le strategie dei grandi centri multinazionali che nascono in America, come Google, Amazon e Facebook, e gli interessi dello stato americano.
Donald Trump è il presidente della nazionalizzazione degli algoritmi. E’ l’emblema di una politica che mira a consolidare la liquidità della rete. Una velleità?
Forse sì, ma è una politica hard, nel senso di consistente e resiliente, e non subalterna.
L’Europa annaspa. Si discute della tenuta dell’Unione e si attacca l’euro. In realtà è la mancanza di un algoritmo europeo che spiega come questa comunità non abbia una spina dorsale unitaria. La geopolitica del software oggi è la vera bussola delle relazioni internazionali.
L’Italia da questo punto di vista è assolutamente all’anno zero. Siamo un paese da operetta, come spiega il generale Giandomenico Taricco su Repubblica di oggi: non abbiamo alcuna sovranità nella gestione delle nostre informazioni, ci affidiamo a sistemi comprati tanto al chilo, senza sapere chi e come li ha progettati.
Il tema che emerge, sul rimbalzo dello scandalo dello spionaggio digitale da parte dei due fratelli Occhionero, riguarda proprio l’autonomia digitale di uno stato.
Non è la connettività la base della cittadinanza digitale, una banale commodity di cui si occupano i responsabili marketing dei grandi provider globali, quanto la capacità di programmare i propri linguaggi algoritmici.
Non abbiamo al momento capacità di sviluppare hardware e software, dice il generale Taricco, per far intendere come siamo subalterni ed esposti. Quando si comprano algoritmi è come se si facesse fare la chiave di cara nostra al Suk di Tangeri. Esattamente cosa che noi facciamo da sempre.
Dunque il problema non è la modernizzazione delle procedure o gli stili di lavoro, come sembra farci intendere il dottor Diego Piacentini, il dirigente di Amazon, uno dei produttori di chiavi per conto terzi, che al momento si occupa della digitalizzazione della pubblica amministrazione italiana in prestito. Il buco nero riguarda la struttura e la competenza nei meccanismi automatici che vengono implementati.
Il punto è l’algoritmo.
Chi lo sviluppa e secondo quali specifiche e con quale trasparenza. I 100 milioni che il governo Renzi ha stanziato per la modernizzazione dei sistemi digitali di sicurezza dovrebbero essere il motore di un piano che in 36 mesi metta in produzione il meglio del know how italiano.
Noi siamo un paese di sviluppatori e di progettisti. Siamo una terra in cui i grandi centri digitali del mondo vengono a creare software. Ma non siamo un paese che crea senso comune nazionale su questo tema.
Vale per lo stato italiano, ma anche per il sistema della comunicazione, per i nostri giornali, tutti in fila a racimolare le briciole da Google e Facebook, o per la Rai che compra all’ingrosso i propri sistemi editoriali, o per il comparto della sanità che importa a scatola chiusa piattaforme e modelli di digitalizzazione.
Non si tratta di sollecitare una svolta autarchica. Si tratta di non rimanere con il cappello in mano dinanzi a chi ci ha sottratto prima la Olivetti negli anni ‘60, e poi via via tutti i centri sensibili di produzione di intelligenze e di comunicazione, dai cavi ottici della Pirelli a Telecom Italia e ad una Finmeccanica di cui non si ha più traccia. Si troverà un partito, un leader, che senza ossigenarsi i capelli possa riaprire questo cantiere?