Facebook muove ancora la sua regina sulla scacchiera del mercato digitale. Dopo gli Usa, presto anche il resto del mondo sarà pronto ad abilitare il servizio di video streaming via mobile del social network di MarK Zuckerberg, che punta così ad ingoiare le soluzioni dei concorrenti, come Periscope (Twitter) e Maarkat.
Ma la partita si fa più dura. Spingendo un miliardo e mezzo di navigatori a scambiare video, si sposta radicalmente il confine fra i linguaggi. Non si tratta più di diventare la televisione globale, quanto di unificare in un’unica soluzione il modello di comunicazione più naturale sulla rete. L’obiettivo è quello di essere la rete e di esserlo nel modo più antropologicamente istintivo, che è appunto l’immagine.
Ovviamente in pochi mesi si prevede una alluvionale produzione di video messaggi che accerchierà Youtube (Google), costringendola in un ridotto professionale. Il servizio video di Google infatti potrebbe diventare il “coming soon” dei format video del pianeta, una grande vetrina dei prodotti TV.
Ma sempre meno sarà il contenitore dei linguaggi spontanei video come oggi è. Tutto tenderà a spostarsi su Facebook. Il rischio paventato da qualche tempo da Mark Zuckerberg è quello di un’eccessiva popolarizzazione del suo social: troppi anziani e pochi giovani professional.
Per questo, il video diventerà anzitutto forma di professionalità. A cominciare dalla formazione: l’eLearning tenderà a sfuggire ai brand universitari, per unificarsi in compositi incubatori di corsi formativi multimediali. Lo stesso accadrà al giornalismo, soprattutto quello locale: Four Square diventerà il modello per moltiplicare agenzie di news audiovisive locali, decentrando fin alla singola strada i flussi di informazione. E poi il turismo, le smart cities, le comunità sportive, ecc.
Si chiuderà un grande Cerchio di immagini attorno a tutti noi, per usare la metafora del libro di Dave Eggers sul grande fratello social.
Ovviamente, il gioco non è tutto già scritto. Ci sono spazi per rovesciare la tendenza. Un grande ruolo avranno in questo contesto i serbatoi di immaginario, come i network televisivi nazionali e i circuiti cinematografici. Un caso concreto lo propone proprio la prospettiva che si offre alla Rai: diventare uno dei grandi fornitori-utenti del sistema Facebook, o invece usare Facebook per estendere e stressare le strategie del social network?
Concretamente, si tratterebbe si combinare le risorse che offre Facebook come connessione con ognuno dei suoi moltissimi utenti per costruire community che vadano oltre Facebook.
Innanzitutto per il carattere non rigidamente profilato, come invece il social pretende. La Rai, come ogni servizio pubblico, non può riprodurre la parabola di targetizzazione dei suoi prodotti tipica dei soggetti privati, che vivono di pubblicità.
Si tratta di pensare a modelli che ricompongano, trasversalmente platee composite e non omogenee, introducendo elementi di serendipity nella programmazione per non rinchiudere ognuno solo in quello che sa.
Paradossalmente, ancora una volta la storia ricomincia lì dove sempre finire: la crisi del generalismo e il gigantismo dei social network commerciali aprono la strada ad una nuova sfida dove il soggetto nazionale può diventare impresario e orchestratore di nuovi modelli di utenza sociale.