Trovo davvero singolare la posizione del professor Walter Quattrociocchi, responsabile del team di ricercatori sulla disinformazione digitale dell’IMT di Lucca in merito alle Fake news (vedi l’intervista pubblicata il 24 gennaio su Key4biz ‘Fake news? È più grave il passaggio da informazione a persuasione’).
Proprio perché apprezzo il rigore metodologico del suo istituto e del gruppo che lui guida, e trovo davvero interessante metodo e criteri di analisi che danno al nostro paese un barlume di autonomia nella decifrazione della rete, non mi convincono le conclusioni. E temo che possano ulteriormente fuorviare chi oggi, penso alla presidente della Camera, sta sforzandosi di porre al centro della scena il ruolo nazionale nella bonifica della rete.
Il punto su cui mi trovo a dover insistere è che la rete non è socialmente, professionalmente né culturalmente un media. Ma è una protesi che prolunga e aumenta potenze della vita. Dunque mi pare improprio voler catalogare e normare un sistema con categorie e regole storicamente selezionate da un’esperienza che come giornalista conosco fin troppo: quella appunto dell’informazione professionale.
Non sono attendibilità, credibilità e buona fede i titoli di capitoli che devono essere scritti da chi sta in rete. Sarebbe come imporre a chiunque di noi che va allo stadio di esprimersi nei confronti della squadra ospite in maniera urbana e oggettiva. Da interista non mi convincerete mai che la Juve sia solo una squadra di calcio. Ed ho la libertà di gridarlo fino a quando qualcuno non ravvisa estremi di comportamenti lesivi e me ne chiede ragione, e lì ci divertiremmo davvero.
Se la rete non è un media il nodo vero non sono le fake news ma i fake users. I dati sulle elezioni americane ci dicono che le community, non tutta la rete, ma circuiti selezionati dove la bias identitaria di cui parla Walter Quattrociocchi giustamente conduceva gli inquinatori, venivano ingolfate da notizie false o capziose da parte di motori artificiali di contenuti: bots.
Qui si ravvisa un primo principio che potrebbe aiutarci realmente: in rete parlano gli umani. E chi non lo è lo deve dichiarare e rendersi visibile e rintracciabile. Pena la sua cancellazione e il sanzionamento dei suoi promotori. Questa è una partita giocabile, che rimette in campo figure professionali e dà respiro non riduttivo, non congiunturale ad un fronte che vuole bonificare il web, senza comprimere liberta e opportunità.
Secondo punto: la persuasività occulta. Ma questo è una storia che viene avanti da almeno 70 anni. Non vorrei scomodare i francofortesi, prima e la sociologia americana che nel 1957 mandò in libreria il fondamentale saggio ‘Persuasori occulti’ di Vance Packard.
Con il senso comune che ci propone Quattrociocchi avremmo dovuto censurare giornali e televisioni, e magari anticipare l’avvento della rete in cui nella stragrande maggioranza dei casi i consumatori ha strumenti e ragioni di straordinaria potenza per rinegoziare il suo rapporto con il mercato.
Il punto finale riguarda chi è titolato ad intervenire? Io non vedo ruoli centrali per organismi statali o internazionali. Sarebbe una classica eterogenesi dei fini che dimostrerebbe ai fondamentalisti che la verità fa paura.
Credo che si debba agire localmente. Città per città, community per community, università per università, giornale per giornale, innestando un processo eguale e contrario. Esentando i monopoli della rete dall’intervenire e dal diventare ancora più intrusivi e potenti. Come spiegava John Arguilla, un analista militare consulente di Obama, spiegando la supremazia degli Hezbollah nei confronti di Israele nella guerra in Libano del 2006: un social network si batte solo con un altro social network.