Si potrebbe rovesciare così la battuta con cui il leader socialista Nenni nel 1963 salutava il primo governo organico di centro sinistra prevedendo che sarebbero stati tutti più liberi.
Invece l’annuncio che Facebook ha cominciato a timbrare le notizie con un segnale rosso con scritto “disputed”, vale a dire “Contestate”, riduce fortemente l’orizzonte della nostra libertà, anche se ho letto commenti masochistici di giornalisti in sollucchero per questo sgravio di responsabilità. Infatti, credo che non tocchi a un trasportatore di contenuti aprire tutti i pacchi e misurare la credibilità di ciò che trasporta. Siamo oltre e peggio della net neutrality, siamo al think checking.
Il fatto che la notizia in questione sia palesemente falsa non attenua la minaccia.
L’argomento scelto da Facebook per esercitare il suo tutoraggio sull’informazione è chiaramente paradossale: si tratta del vaneggiamento del presidente americano Donald Trump, che giocando con siti news di suoi supporter, rilancia l’ipotesi di essere stato vittima di spionaggio ad opera del suo predecessore, Barack Obama.
Anzi per certi versi il quadro si aggrava.
Infatti, non è una testata o un sito istituzionale ad essere colpito dalla censura del social ma un blog, ossia un formato prettamente di opinione che per quanto tenti di accreditarsi come fonte di informazione rimane uno spazio artigianale di un gruppo di attivisti.
Chi può e deve sindacare l’azione di un gruppo di persone che pensa cose estreme?
Il titolare della legge, in caso di violazione di norme esplicite; il sistema professionale dell’informazione, nel caso in cui la proliferazione di fake inquini l’eco sistema.
Tertium non datur.
Soprattutto non datur potere aggiuntivo all’algoritmo di un sistema come Facebook, che sta già travalicando i limiti di cittadinanza e di civiltà, stringendo ognuno dei suoi utenti in un cerchio sempre più soffocante, per quanto allettante e gratuito.
Tanto più che oggi il capo di Facebook non è solo un garrulo e genialoide teen ager ma è il vertice di una piramide di potere finanziario e tecnologico che mira a candidarsi a tutore della democrazia globale, come il manifesto che ha diffuso Mark Zuckerberg fa intendere chiaramente.
Siamo nel cuore di un conflitto d’interessi planetario, in cui una macchina di intelligenza artificiale si vede addirittura appaltare l’onere di controllare la verità nel mondo, dando al sistema un ruolo di spazio pubblico ma senza le responsabilità e gli obblighi del caso. Non si può.
I giornalisti non possono accettarlo, pena il decadimento di ogni prerogativa che ancora giustifica il loro pagamento mensile.
Le università non possono accettarlo, pena mettere in scacco l’intera attività di ricerca scientifica.
Le città non possono accettarlo, pena la subordinazione di ogni servizio civico ad una valutazione automatica esterna.
La democrazia non può accettarlo, pena l’omologazione di ogni diversità a standard pre fissati.
Non dovrebbe accettarlo il presidente della Camera Laura Boldrini, che con meritoria passione ha posto il tema reale dell’avvelenamento dell’informazione da parte di professionisti della menzogna e che non può vedere strumentalizzato il suo grido di dolore in un ulteriore ridimensionamento degli spazi di libertà e di autonomia online per lo strapotere di un solo algoritmo.
Io spero che i gridolini di piacere che hanno accolto l’intrusione di Facebook da parte di testate giornalistiche siano solo un riflesso condizionato degli accordi che legano queste testate al moloch globale. E non la consapevole accettazione di un ruolo del tutto subalterno alle valutazioni di un unico centro globale su cosa può essere detto e cosa no. Sarebbe il tornante finale di un’intera tradizione culturale e professionale. In fondo al quale ci sarebbe un solo tasto da pigiare: I like.