Pur di farsi un selfie si rischia la morte.
E’ il breaking digital di questa puntata: perché la gente sta sui social network? La domanda è ormai fissa nelle discussioni a cena o nei seminari sociologici e nei focus di marketing: perché?
Forse la risposta, o almeno il contesto per comprendere questa irrefrenabile spinta che ci porta quotidianamente a diventare vetrina di noi stessi, ce la offre un frammento della guerra contro l’ISIS.
BreakingDigital, rubrica a cura di Michele Mezza (docente di Culture Digitali all’Università Federico II Napoli) – mediasenzamediatori.org. Ultimo libro pubblicato ‘Giornalismi nella rete, per non essere sudditi di Facebook e Google’, Donzelli editore. Analista dei processi digitali e in particolare delle contaminazioni social del mondo delle news. Clicca qui per leggere tutti i contributi.Lo stato maggiore americano ha annunciato che, in seguito ad un selfie di tre militanti del califfato dinanzi ad una base terrorista, le forze aeree americane hanno individuato la località ed eliminato l’allegra brigata distruggendo la palazzina che li ospitava.
Da una parte le deduzioni su come ormai i social siano terreno di una gigantesca gara a guardie e ladri per rintracciare e localizzare le bande dei guerriglieri islamici.
Ma l’episodio ci offre anche materia per una considerazione più di fondo. In medio oriente da ormai molti anni si sa che ogni atto o azione che si compie mediante sistemi digitali potrebbe comportare la propria localizzazione. Da molto tempo i droni americani ed israeliani colpiscono dopo che una telefonata o un sms hanno permesso di individuare nel pagliaio l’ago che si cercava.
Anche i bambini sanno che non bisogna farsi tracciare, in nessun caso.
Allora, come mai proprio coloro che dovrebbero essere l’avanguardia più avvezza alle nuove forme di guerra tecnologica si fanno cogliere così alla sprovvista? La risposta potrebbe essere quella che i sociologi francesi hanno definito “Extimité”, una forma ibrida di esibizionismo che arriva a mettere in vetrina anche l’intimità più delicata e riservata di ognuno di noi, pur di partecipare a quell’ancora misterioso gioco di scambio che va in scena sulle reti social fra la curiosità generale e i mille sprazzi di eccentricità con cui ognuno di noi mira ad accaparrarsi la quota maggiore di questa curiosità, di questa attenzione globale.
L’extimité è quella forza che spinge gli individui a denudarsi mediaticamente, dalle forme più frivole, per cui quello spericolato che va in macchina a 240 all’ora vuole immortalare la sua trasgressione e condividerla con la sua schiera di “osservatori” anche a costo, come è accaduto, di essere individuato e multato.
Oppure arriviamo alle forme di più tenebrose e morbose, del deep net, dove si dà la stura al campionario più inimmaginabile delle proprie depravazioni, anche qui mettendo chiaramente a rischio la propria identità.
Mark Zuckerberg intuì che in ambiti ristretti ci fosse una ridondanza di voyeurismo comunitario, ossia desiderio di individuare e valutare le persone che si conoscono. Poi inciampò nell’extimité, ossia nell’ansia di usare quella grande vetrina non per guardare ma per farsi guardare, non per cercare quella persona con cui parlare ma per farsi contattare dalla curiosità globale.
E l’intreccio dei due fenomeni portò Facebook a diventare il citofono del pianeta. E, prolungandosi quest’effetto, contamina anche fenomeni più strutturati, come il giornalismo, oppure la religione, che vengono squassati dal protagonismo degli ex gregari che mediante extimité diventano, per più dei 5 minuti preconizzati da Andy Wahrol, protagonisti e attori.
Ma, da quello che vediamo, il processo sembra solo all’inizio perfino nel tragico gioco di sempre, quello della guerra mediatica, in cui ormai la pubblicizzazione delle proprie azioni prevale sulla stessa utilità strategica delle stesse azioni.
Parafrasando Mary Douglas, una delle più acute studiose di marketing, potremmo dire che nella società a rete ogni singolo atto, anche il più riservato o vitale, non coincide con il suo effetto o obiettivo, ma solo con il suo racconto.
La strategia dell’ISIS ne è un clamoroso esempio: le decapitazioni o l’accanirsi contro i monumenti archeologici sono atti che fungono da pretesti per la loro narrazione. E’ il diffondersi, il propagarsi dei messaggi che sono connessi all’atto che rende quest’ultimo indispensabile. L’ISIS non potrebbe parlare altrimenti.
Non dissimile era la situazione al tempo del terrorismo nostrano: le Brigate Rosse usavano i propri delitti per parlare a quella parte di paese che ritenevano potenzialmente sintonizzato su quella lunghezza d’onda.
Ma su un terreno più ordinario e politicamente convenzionale anche i fenomeni di Silvio Berlusconi o Beppe Grillo sono il frutto di un uso di atti di trasgressione, ovviamente meno drammatici ed eclatanti, che producono attenzione e selezionano un proprio pubblico.
Anche nel caso dei due mattatori, arriviamo alla roulette russa, ossia ad esibire le proprie trasgressioni per parlare più forte e con più persuasione a quelle figure che si immaginano sensibili, affascinate, coinvolte dalle storie forti.
E spesso l’acrobata poi cade da questo filo. Come è accaduto ai tre guerriglieri dell’ISIS, individuati ed eliminati. O come è accaduto allo stesso Berlusconi, le cui esibizioni nelle sue ben note attività ludiche, gli è costato qualcosa di rilevante.
Ma la reazione a catena non sembra fermarsi. E i listini di borsa sembrano puntarci con forza: la privacy è solo forma, moda, momento. Il contenuto, che invece rimane e cambia le relazioni sociali, è extimité.