“I believe…” Io credo… che arriveremo nei prossimi 10 anni sulla luna.
Così il 25 maggio del 1961 (55 anni fa, davanti al congresso americano, il presidente John Fritzgerald Kennedy lanciava la sfida alla luna dell’occidente, mobilitando intelligenze, saperi e competenze nello sforzo di arrivare prima dei sovietici sul nostro satellite. Solo un mese prima gli Usa avevano tremato all’annuncio che un uomo stava ruotando sulle loro teste in una navicella spaziale. Era Jury Gagarin, l’astronauta sovietico che per primo superò l’atmosfera.
Le due super potenze cominciavano così la lunga corsa della scienza per governare il pianeta. Non potevano che farlo loro.
Non potevano che essere due Stati, i due più grandi e forti sistemi politico economici, a reggere questo sforzo.
L’altro giorno, un signore, che solitamente costruisce automobili, per quanto di grande tecnologia e innovazione, Elon Musk, il patron della Tesla, e di molto altro, si è affacciato da un palcoscenico dell’International Astronautical Congress e ha presentato, senza nemmeno grande enfasi, il suo piano per avviare voli regolari su Marte entro il 2024. In soli 8 anni, ha spiegato, verrà reso possibile un collegamento regolare con il pianeta rosso mediante un vettore che potrà, all’inizio, trasportare fino a 100 persone. Con soli, tutto sommato, 10 miliardi di dollari, sarà possibile predisporre il propulsore e organizzare la relativa logistica.
Questi due episodi – il solenne impegno del presidente Kennedy e il concreto piano operativo del magnate della Tesla – sta il senso di cosa accade attorno a noi.
Tutto quello che prima facevano gli Stati, e solo loro, oggi lo fanno alcuni colossi tecnologici, che accumulano, parallelamente, saperi e capitali.
Saperi e capitali di tale entità e pervasività che solo grandi complessi istituzionali, fino a qualche decennio fa, potevano organizzare e finalizzare.
Oggi, mediante economie di scala di dimensione planetaria, gruppi come appunto la Tesla, ma anche Google, Amazon, Facebook, sono in grado di surrogare la sovranità degli stati, proponendo ai cittadini del mondo soluzioni e strategie estremamente allettanti, promozionali e soprattutto da un apparente costo zero.
Musk per il suo progetto non attingerà minimamente all’erario pubblico, e non graverà in alcun modo in termini fiscali sulla già bistrattata classe media americana. Lo stesso potrebbero dire i top management dei grandi Over The Top della rete.
Questa supplenza da parte di imprese vincenti sulla figura statuale è decisamente la chiave di volta per comprendere il subbuglio che ci circonda. Sia in termini positivi, con il superamento dei limiti dello Stato nazione e l’apertura di orizzonti immensi per ogni cittadini che opera e comunica, ormai senza confini. Sia in termini negativi, con il timore di sentirsi sballottati in un’unica massa informe di competitori che porta parti consistenti delle opinioni pubbliche locali a cercare riparo, e rifugio in protezioni nazionalistiche e populiste. Quanto sta accadendo nelle elezioni americane. Con un effetto: la radicalizzazione dei due indirizzi – il globalismo di Hillary e il protezionismo di Trump – forse spiega meglio di ogni ragionamento questo scenario.
Ma il processo non riguarda solo i giganti, sono soprattutto i nani che usufruiscono di questa disintermediazione dei giganti istituzionali.
Se guardiamo a cosa accade, molecolarmente, negli ambiti a noi più vicini, dall’informazione alla sanità, dall’economia alla politica, vediamo come il fenomeno di disconoscimento delle deleghe ai grandi mediatori è ormai inarrestabile.
Giornalisti, medici, amministratori, politici, sindacalisti, imprenditori, intellettuali, sono costantemente misurati, contestati, incalzati, controllati, bocciati.
La sindrome di Marte è ormai un virus che si sta diffondendo esponenzialmente. Perché cambia le gerarchie nell’informazione, muta i ruoli nell’assistenza, contesta i primati in politica e comincia a minacciare persino proprietà e denaro.
Come dare un senso a questa spinta epocale?
È questo il nodo che rimane insoluto. La politica ancora cerca di adattare vecchie ricette, come la rappresentatività e il consenso, cercando di rimontare una macchina di comando come il partito. Nei giornali si prova a trasferire sulla rete la vecchia cassetta degli attrezzi delle redazioni degli anni Settanta. Nell’economia ci si stupisce che il sistema non risponde alle vecchie politiche gestionali, e che non reagisce ad input del vertice su uno sviluppo che rimane sulla carta.
In questo marasma emergono, incontrastati, solo i nuovi monopoli degli automatismi. Chi governa gli automatismi governa il nuovo mondo digitale, spiega Nicolas Carr nel suo saggio La Gabbia di Vetro.
Al momento a pilotare il convoglio sono alcuni nuovi capitani d’impresa, come appunto il nostro Musk, o come Mark Zuckerberg, Jeff Bezos. Ma anche qui ci stiamo avvicinando ad una nuova soglia, a quella che si definisce il machine learning, la cosiddetta singularity, quel concetto per cui ad un certo punto l’intelligenza artificiale non ha più bisogno degli uomini.
Già un pezzo della Silicon Valley sta lavorando a questa prospettiva con la nuova Università Singularity allestita da Raymond Kurzweil, una singolare figura di scienziato e pedagogo diventato uno degli investitori di guida del mercato digitale.
A questo punto la domanda è: siamo alla vigilia di una nuova stagione di autogoverno degli individui, oppure siamo all’ennesima torsione centralizzatrice che prevede una omologazione cognitiva delle community?