Ma davvero vale ancora la pena di spendere tempo e risorse per lucidare e promuovere il concetto di customer care? O non sarebbe il caso che le aziende comprendessero che siamo ad un giro di boa, e quello che ha permesso loro di scambiare per misura della soddisfazione del cliente il proprio marketing e soprattutto la propria ansia di estrarre dati e indicazioni da ogni singola decisione di acquisto, va oggi sostituito con un nuovo concetto che è il consumer literacy, ossia la pretesa ad un’informazione critica, consapevole e negoziale di individui e community?
Su questo tema, il customer care, un recente meeting promosso da I-Com, l’Istituto per la competitività, ha offerto l’opportunità di una messa a fuoco del livello di diversa consapevolezza ormai maturata sul mercato circa la necessità di adeguare forme e soprattutto contenuti della relazione fra impresa e cliente.
I dati di base fotografano uno stato di crescente propensione delle aziende a rivolgersi al cliente, dopo la transazione, per ricavarne indicazioni per ottimizzare ulteriormente l’offerta. Siamo ormai oltre al 60% delle aziende che mettono in atto strategie di customer care.
Uno scenario che vede come ormai prevalente se non tendenzialmente esclusivo il protagonismo dello smartphone. E’ proprio il device mobile intelligente, che nel primo trimestre del 2016 ha rappresentato l’80% dell’intera vendita di telefonini, a guidare e impaginare i nuovi linguaggi relazionali degli individui con il mercato. Linguaggi che vengono declinati sempre più in termini di social. La crescita dei due fenomeni, adozione di smartphone per la propria vita e impegno social per le proprie relazioni, è ormai un trend antropologico: si vive facendo entrambe le scelte.
In questo quadro appaiono assolutamente primitive e inadeguate le tecniche di marketing basate sulla customer care. E’ come se volessimo trasmettere in televisione uno spettacolo teatrale con telecamera fissa. Non è quello il modo per coniugare i due media. Così come nella nuova società a rete, basata sulla mobilità e le smart mobs, occuparsi di ogni singolo cliente, isolandolo dai propri contesti e spingerlo a misurare semplicemente la corrispondenza delle modalità di offerta di un singolo prodotto o servizio con gli impegni del venditore non coglie minimamente la nuova gamma delle ambizioni e dei bisogni della platea degli utenti.
Tanto meno assume oggi un rilievo la sbandierata efficienza dei servizi di supporto, quali i soliti esotici call center, per i quali dovrebbe essere uno straordinario merito il fatto che rispondano alla chiamata e a volte persino corrispondano sui contenuti dei quesiti posti.
Il tempo che viviamo è segnato da due fenomeni che persino le aziende dovrebbero cogliere: l’attitudine di ogni individuo ad usare la rete, mediante sistemi mobili per lo più. Per costruire community, momentanee o stabili, e attraverso queste negoziare con il mondo esterno, in termini di nuova dialettica dei poteri fra alto e basso; e il fatto che queste community si costituiscono per rendere più coerente e affine l’ambiente esterno in cui vivono, sia esso un territorio, un’istituzione e persino il mercato.
Se non fosse così sarebbe del tutto inspiegabile e infondato la tendenza a farsi rete che viralmente sta connettendo tutti gli scacchieri del pianeta, da nord a sud, dal caldo al freddo, da est a ovest.
La rete si espande non perché affluiscono soluzioni tecnologiche, ma piuttosto la tecnologia risponde alla domanda di empowerment di soggetti sociali che tendono a disintermediare primati, autorità, poteri e valori sovraesposti. Pensare che questa tendenza alla rivisitazione del patto fra governanti e governati interessi solo le istituzioni o la politica è un’illusione che non dovrebbero alimentare proprio le imprese che più volte in questi lunghi decenni hanno spiegato al mondo il valore dei cambiamenti radicali e non recintabili che l’innovazione comportava.
I due fattori che abbiamo indicato come motore del processo reticolare, ossia la formazione di community che promuovono occasionali smart mobs, come spiegava anni fa Howard Reingold per interloquire con i poteri; e, dall’altra parte, il carattere negoziale che queste community tendono ad assumere con l’ambiente esterno, ci porta a ritenere che le forme paternalistiche di assistenza e supporto alla clientela che hanno dato corpo all’insieme delle pratiche di customer care siano ormai desuete.
Innanzitutto perché il consumatore non è più né principalmente solo nelle sue decisioni di acquisto, ma è ormai costantemente parte di una catena sociale, che si forma lungo tutto il processo psico-tecnologico che porta ognuno di noi a maturare una decisione di acquisto di beni di varia natura.
Questa smart mob che accompagna il consumatore tende a permanere anche dopo la sua decisione, ed interviene in un eventuale contestazione o conflitto, offrendo la sua esperienza e testimonianza. Non è dunque più accettabile che la relazione con un’azienda che distribuisce servizi o prodotti a grandi platee si debba sempre atomizzare, riducendosi ad un rapporto asimmetrico fra il gigante e il singolo cliente. Così come non è più accettabile che la relazione di mercato si attivi fra imprese e clienti solo sulla base di una singola decisione di acquista, realizzata o da realizzarsi, e non investa la natura e la configurazione dell’oggetto della transazione, sia esso un servizio o un prodotto. Il punto che poniamo qui riguarda la negoziabilità dell’offerta, la sua flessibilità nell’adattarsi o nel modificarsi, sulla base delle necessità reali del consumatore.
Non è certo un caso che proprio quest’anno il Nobel dell’economia sia andato a due scienziati come Oliver Hart e Bengt Holmstroem che hanno a lungo studiato le relazioni contrattuali e negoziali nella moderna economia. Queste relazioni, che presuppongono anche momenti conflittuali, sono le più affini alla logica della rete e reclamano nuove logiche normative e nuove culture di intervento da parte delle istituzioni.
Le numerose autority che si alternano a guardia della correttezza del mercato, penso in particolare a quella Antitrust e a quella delle comunicazioni (Agcom), dovrebbe aprire una vera istruttoria per acquisire esperienze e modalità con cui misurare i livelli di condivisione e di identificazione degli utenti con le offerte di mercato. Dati che dovrebbero poi portare ad una vera elaborazione di nuove procedure negoziali da parte degli utenti dell’intera gamma delle modalità di consumo.
In questo contesto, affiora poi un aspetto destinato a mutare radicalmente la tradizionale geografia dei rapporti commerciali, fino ad ora basati solo sul contatto fra venditore e cliente. In realtà nella società a rete, basata sulla personalizzazione del consumo, la figura centrale, quella che decide e determina le ragioni di scambio, non coincide né con il venditore né con il cliente, quanto ormai quasi esclusivamente, con il distributore: è il cosiddetto service provider in rete a formattare il mercato, profilando il consumatore e orientando la produzione, ma soprattutto dettando forme e contenuti dei linguaggi e dei comportamenti.
Questo primato è simboleggiato concretamente dai primati finanziari conseguiti dai distributori. Basta un rapido sguardo ai listini di borsa internazionali per vedere come i grandi provider, da Google a Facebook, ad Amazon a Spotify, capitalizzano quanto un tempo toccava all’insieme delle grandi multinazionali della produzione.
Lo strumento di questo dominio dei distributori è il software, meglio ancora l’algoritmo, ossia quella formula che predetermina le modalità con cui si risolve un problema e si risponde ad un’esigenza, automaticamente. E’ l’algoritmo oggi l’unità logica che da l’impronta non solo al mercato ma alla nostra vita sociale, organizzando dettagliatamente le nostre relazioni.
L’algoritmo come nuovo segno del comando economico conferma e ratifica l’inadeguatezza del customer care. Come si potrebbe misurare la soddisfazione per il funzionamento di un algoritmo?
Come si potrebbe realmente valutare la relazione fra le mie necessità e il modo in cui un software le soddisfa se non conoscendone struttura, articolazione e conseguenze di quel dispositivo automatico?
In questo contesto, dire se la transazione è stata adeguata o meno è palesemente insufficiente, come lo è di solito un plebiscito a misurare un dibattito politico: dire sì o no, risolve un dualismo ma non dà la misura di una proposta politica. Lo stesso vale per la nuova ambizione e le nuove potenzialità concrete del protagonismo del consumatore: non basta dire buono o cattivo, voglio capire come e con quali conseguenze sono oggetto di un trattamento digitale.
E’ questo il campo della literacy, che abbiamo richiamato in apertura.
La literacy è un concetto esploso negli anni ‘70 nel cuore del dibattito sull’informazione negli USA. Si trattava allora di adeguare alla pressione dei media i diritti degli utenti.
Allora emerse un concetto di informazione critica, consapevole e negoziale. Questi tre attributi oggi sono essenziali per disegnare una nuova ecologia del mercato digitale, dove l’utente sia protagonista di una continua azione critica, consapevole e negoziale, dove l’impresa sia interlocutore ed a volte anche partner del suo cliente per rendere trasparente e disponibile ogni gradino della scala commerciale, e dove il distributore non sia un regista occulto di omologazioni comportamentali ma il luogo dove l’incontro fra i diversi soggetti commerciali si realizza nella piena reciprocità.
La reciprocità è l’ultimo passaggio di questa nuova relazione di literacy fra aziende e clienti: reciprocità significa garanzia per tutti che i prodotti e i servizi siano liberamente ed efficacemente testati, misurati e integrati, con un’azione di continua sperimentazione. E soprattutto dove le asimmetrie siano indice di cattivo funzionamento e non più di un privilegio predatorio da parte dei giganti. Diciamo con uno slogan: quello che si compra con un click si deve restituire con un click. Banale forse ma chiaro per capire quanta strada ancora si debba fare.