L’accordo con la Grecia prevede una serie minuziosa di privatizzazioni.
Il termine è quanto mai fuorviante.
In realtà per i tempi e le modalità conseguenti saranno veri e propri espropri.
BreakingDigital, rubrica a cura di Michele Mezza (docente di Culture Digitali all’Università Federico II Napoli) –mediasenzamediatori.org. Ultimo libro pubblicato Giornalismi nella rete, per non essere sudditi di Facebook e Google,Donzelli editore. Analista dei processi digitali e in particolare delle contaminazioni social del mondo delle news. Clicca qui per leggere tutti i contributi.Al netto del merito del contenzioso economico con Tsipras, è evidente infatti che imporre una strategia di alienazioni di beni industriali complessi, le cui procedure solitamente impegnano mesi e mesi se non anni, come in Italia ben sappiamo, in poche ore, come prevede il diktat della troika, non può non comportare forme di liquidazione coatta che non porteranno certo a grandi affari per l’erario greco.
Inoltre, banalmente, chiunque fosse interessato a quegli asset, ben sapendo le condizioni e i tempi in cui il governo greco se ne dovrà disfare, non potrà che imporre termini capestro per il venditore.
Ma ci incuriosisce in questa sede la mancanza nell’elenco dettagliato, fra aziende di servizi (come l’elettricità) e infrastrutture (come porti e aeroporti) del sistema dell’informazione.
Il confine sono le telecomunicazioni, dove si procederà alla vendita completa delle società di telefonia a dei servizi cablo, mentre per TV e giornali silenzio totale.
Non è certo per distrazione.
La sensazione è che il mercato, soprattutto il versante finanziario che mira ad investimenti con un ritorno sicuro e a breve-medio periodo, stia abbandonando il sistema dei media, soprattutto nelle aree più avanzate.
I dati ci dicono che in Europa e Stati Uniti gli investimenti nel settore siano contratti di circa il 25%.
In particolare nelle aree di saturazione, o come è il nostro caso, di improduttività, della pubblicità.
La Tv greca era stata in qualche modo un piccolo laboratorio, quando venne chiusa improvvisamente dal governo di centro destra, precedente a questo presieduto da Tsipras.
Anche in quel caso nessun tentativo di privatizzazione, ma semplice cancellazione del servizio. L’ondata di protesta fu veemente.
Si vedeva nella chiusura della TV nazionale il simbolo dello spegnimento dell’intero paese.
Ora si tratta di dare un volto nuovo al sistema industriale e i media dovrebbero esserne parte. Eppure non sembra che vi siano interessi né interni né esterni al paese.
Da una parte si consuma la crisi politica del sistema mediatico: i media non mediano più.
Ossia non si registra alcun sostanziale effetto di opinione per l’azione del sistema informativo.
Lo stesso referendum di qualche giorno fa ha relegato in una posizione marginale Tv e giornali. Parlavano le piazze e i sistemi virali.
Poco o nulla i tradizionali mezzi di influenza di massa.
Lo stesso, in qualche modo, sta accadendo ad esempio in Italia, con le manovre attorno al triangolo Rai–Mediaset–Telecom Italia. Il lavorio dei francesi di Vivendi, sotto gli occhi di un governo che non sembra scaldarsi molto, riguarda gli aspetti di ipotetiche sinergie multimediali più che la costituzione di potentati propagandistici.
Le torri di trasmissione contano più dei TG.
Cambia l’economia politica del sistema di comunicazione e di conseguenza cambieranno gli attori in campo e i linguaggi conseguenti.
Questa forse è la vera riforma costituzionale che si sta configurando all’ombra del vacuo balletto attorno al Senato, più o meno elettivo.
Dopo l’età della politica resistenziale e la fase della politica televisiva, sta incubando una nuova politica elettrica.
Forse il nuovo cavaliere elettrico, per citare un grande film degli anni Ottanta, pronto a scrollare questo presepe distratto che si muove nelle istituzioni, è già in azione nelle pieghe della rete.