Nuovo crollo del bitcoin
Il bitcoin ci ha abituati, ormai, ad un mercato altalenante e infatti, da qualche giorno, la criptovaluta più popolare al mondo ha iniziato una nuova caduta. Al momento, è valutato poco sopra i 52 mila dollari, ma ha perso il 25 % in una settimana (il 10 novembre era quotato 69 mila dollari).
I motivi di questo andamento a strappi sono diversi e non tutti ancora chiari fino in fondo. Il giornalista esperto di criptovalute, David Gerard, è stato intervistato su questo argomento da Euronews.com.
“Sembra che tre miliardi di tether, dietro i quali però non c’era niente, siano stati utilizzati per gonfiare il prezzo del bitcoin nei giorni scorsi”, ha spiegato Gerard, “poi questo processo si è interrotto e il bitcoin ha iniziato a perdere di valore”.
Bitcoin e manipolazione del mercato
A detta dello scrittore (Gerard ha pubblicato un libro di successo sull’argomento: “Attack of the 50 Foot Blockchain”), spesso i tether sono sostenuti da finta liquidità. In questo modo si riesce a capire quanto il prezzo del bitcoin sia manipolato, anche perché non esistono regole in questo mondo.
I tether sono anch’essi delle criptovalute, ma di natura diversa, sono definiti stablecoin, cioè dovrebbero mantenere sempre un valore stabile (fissato attorno ad un dollaro). Convertono il denaro in criptovalute, per ancorare o legare il valore di queste al prezzo del dollaro statunitense, ma anche dell’euro e dello yen.
“Sembra che siano stati distribuiti circa 3 miliardi di dollari di liquidità discutibile, che è stata utilizzata per aumentare il prezzo del bitcoin, è così che si manipola un mercato”, ha affermato il giornalista.
“Le persone che vogliono entrare in questo mondo, vedendo così tanti soldi e pensando che sia facile ottenerli, non si rendono conto che in realtà sono loro il pasto principale, sono i polli da spennare”, ha aggiunto Gerard.
I Governi “no-cripto” e “si-cripto”
Altro motivo, da aggiungere all’alta volatilità programmata e pianificata a tavolino (previa manipolazione) di questa criptovaluta, è l’azione repressiva nei suoi confronti, messa in atto da molti Governi a livello mondiale, principalmente dalla Cina.
Il pugno duro di Pechino ha fatto espatriare molti “minatori” verso altri Paesi, come Stati Uniti e Canada, ma anche dell’America Latina (Honduras, El Salvador, Panama, Paraguay e Argentina), o recentemente il Kazakistan, dove il prezzo dell’energia è più basso o i controlli governativi più deboli.
L’estrazione delle criptovalute si chiama “mining”. A condurre questo processo di estrazione sono i “miners” o minatori.
I minatori “esiliati” hanno portato via con sé un miliardo di bitcoin, che al momento tengono come scorte. Secondo Gerard sembra che sul mercato non ci siano acquirenti, della serie: tutti i polli che c’erano sono stati spennati, ne attendono di nuovi.
Norvegia e Svezia contro le cripto: inquinano troppo
Poi ci sono altri Paesi, invece, come Norvegia e Svezia, che non vedono di buon occhio le criptovalute proprio per l’eccesso di emissioni di CO2 legate all’attività di mining.
Secondo il ministro dello Sviluppo locale e della modernizzazione, Bjørn Arild Gram, le criptovalute e in particolare il bitcoin consumano troppa energia e in questo momento non è giustificabile lo spostamento delle rinnovabili in questo settore per la copertura della domanda aggiuntiva.
Le rinnovabili, in poche parole, servono all’intera popolazione e alle attività economiche ed industriali per raggiungere gli obiettivi di neutralità climatica del Paese, non per minare.
I “no-cripto” alla COP26
Di questo tema si è parlato anche alla recente COP26 di Glasgow, proprio per il grande aumento di minatori, di utilizzatori di criptovalute e quindi di aumento delle emissioni di CO2.
Il Governo norvegese ha poi sostenuto che per affrontare il problema serve una normativa comune europea. Anche i regolatori della vicina Svezia sono orientati ad un giro di vite deciso contro il mining, sempre per l’eccessivo consumo di energia.
Stoccolma ha infatti da tempo avviato un iter normativo di regolamentazione di questo settore in rapida crescita, ma che è sempre più energivoro, tanto che le autorità finanziarie hanno deciso di attenzionare le pratiche di mining dette “Proof-of-Work” (che è l’algoritmo utilizzato sulle blockchain più note per la validazione delle transazioni).
Norvegia e Svezia, così come l’Islanda, sono diventate destinazioni popolari per i minatori di criptovalute, negli ultimi tempi, grazie all’abbondanza di energia rinnovabile e ai bassi prezzi dell’elettricità.