In poco più di un mese il bitcoin è praticamente raddoppiato di valore sui mercati internazionali. Stamattina siamo ben oltre i 10.800 dollari e certamente la bolla speculativa lo farà volare rapido verso gli 11.000 dollari.
Record su record frantumati, la criptovaluta più popolare (ma ce ne sono molte altre anch’esse in forte crescita di valore) sembra non conoscere battute d’arresto e da inizio mese il suo valore (al 1° novembre pari a 6.441 dollari) è cresciuto di oltre il 40%.
Tra la ricerca di una valida alternativa monetaria a livello mondiale e la possibilità tutt’altro che remota di una enorme bolla valutaria, il bitcoin nell’ultimo mese ha dimostrato che i mercati sono molto reattivi e decisamente interessati al settore delle criptovalute.
Soprattutto negli ultimi giorni, in coincidenza delle festività americane (e con l’avvio del lungo periodo natalizio), ci sono stati una serie di interventi a favore di questa valuta digitale che ne hanno moltiplicato l’attrattività a livello finanziario.
Sempre negli Stati Uniti d’America, per la Festa del Ringraziamento, racconta oggi La Stampa in un articolo, è stata avviata la più grande piattaforma exchange del Paese, la Coinbase, con oltre 100 mila nuovi conti aperti (in toltale più di 13 milioni di account attivi).
In Corea del Sud, invece, già da tempo orientata all’utilizzo diffuso del bitcoin e altre criptovalute nell’economia reale, la Shinhan Bank, banca commerciale di massimo rilievo nel Paese asiatico, ha annunciato per la metà del 2018 l’apertura di un servizio di custodia della valuta digitale, con l’offerta ai clienti che ne faranno uso di un wallet protetto dove acquistare e vendere la valuta virtuale.
Un grande business, insomma, e un settore, quello delle criptovalute, che al momento è di difficile interpretazione. Una cosa è certa, per estrarre bitcoin e altre valute simili serve tanta energia.
L’attività di mining di un anno ci costa più di 30 terawattora (TWh) di energia elettrica. Per fare un confronto che possa rendere l’idea del livello di consumi energetici delle criptovalute, l’intera Irlanda consuma mediamente ogni anno 25 TWh di elettricità.
I dati, riportati da un articolo online sulla rivista scientifica Focus, sono stati estratti dallo studio pubblicato da Digiconomist.
Per fare mining, per procedere con le operazioni di crittografia, per garantire sicurezza e continuità alle operazioni di transizione finanziaria (ogni transazione consuma 275 KWh), per sostenere tutte queste attività in rete, si consuma tanta energia. un vero e proprio buco nero energetico.
Più cresce il mercato dei bitcoin (ma sono decine le criptovalute usate quotidianamente al mondo), più è necessario generarli (mining), il che significa che non bastano più dei buoni computer a casa, ma migliaia di processori al lavoro costantemente, quindi gigantesche server farm che succhiano energia.
Per risparmiare qualcosa queste server farm, piene zeppe di mining machines, spesso vengono messe in piedi in aree del mondo dove l’energia costa meno (come nel caso di Cina e Mongolia), ma nonostante questo i costi energetici raggiungono facilmente i 40 mila dollari al giorno.
A proposito di posti dove il mining è più economico, anche per i costi energetici più bassi rispetto ai Paesi occidentali, c’è in Mongolia un avamposto cinese dove questa pratica è particolarmente vantaggiosa. La città di Ordos, nella Mongolia cinese (500 chilometri a ovest di Pechino), conta poco più di 2 milioni di abitanti (davvero poco per gli standard cinesi) ed è tristemente famosa per le miniere di carbone.
Qui, però, si estrae anche qualcos’altro e nel tempo sono sorte delle nuove server farm molto grandi dedicate al mining di bitcoin.
In questa località sono eseguite più di 300 mila transazioni al giorno (12.500 l’ora) e complessivamente si calcola che ogni ora sono emesse fino a 40 tonnellate di diossido di carbonio (CO2).