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Banca centrale europea, chi sara’ il successore di Mario Draghi?

27 mar 11:25 – (Agenzia Nova) – Jens Weidmann sarebbe il successore piu’ probabile di Mario Draghi alla guida della Banca centrale europea (Bce), secondo il quotidiano italiano “la Repubblica”. Il presidente della Deutsche Bundesbank, scrive la “Frakfurter Allgemeine Zeitung”, non e’ certo il candidato preferito dal pubblico italiano: quasi certamente il banchiere tedesco non proseguirebbe la politica espansiva attualmente condotta dall’Eurotower. La scadenza del mandato di Draghi, comunque, e’ ancora lontana: e’ fissata per il 31 ottobre del 2019. La politica dei bassi tassi d’interesse della Bce, scrive il quotidiano tedesco, danneggia i risparmiatori ma torna a vantaggio degli Stati, specie i piu’ indebitati. Weidmann non ha mai fatto mistero di essere contrario alla politica di Draghi. Un presidente tedesco della Bce, pero’, e’ sempre stato osteggiato da francesi e italiani. E infatti, ricorda il quotidiano, il primo fu olandese, Wim Duisenberg; fu poi la volta di un francese, Jean-Claude Trichet, sostituito da Draghi nel 2003. Tra i collaboratori piu’ stretti del presidente in carica ci sono “pesi massimi” di orientamento anglosassone, come il belga Frank Smets. Sabine Lautenschlaeger, e’ l’unico tedesco nel comitato esecutivo della Bce. In ogni caso il prossimo presidente sara’ deciso dai prossimi capi di Stato e di governo della zona euro. Fra loro il prossimo premier francese e quello tedesco: chissa’ se Martin Schulz (Spd) voterebbe come il cancelliere Merkel in favore di Jeas Weidmann?

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Il cammino per la ripartenza dell’Europa e’ passato per Roma?

27 mar 11:25 – (Agenzia Nova) – La Brexit iniziera’ formalmente dopodomani mercoledi’ 29 marzo, ma a pochi giorni vigilia dell’apertura dei negoziati per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea i leader degli altri 27 paesi Ue si sono concessi a Roma un vertice simbolico, rilassato e soleggiato: lo scrive sul quotidiano francese di sinistra “Libe’ration” il corrispondente Eric Jozsef raccontando come sul Colle del Campidoglio, nella stessa Sala Orazi e Curiazi in cui fu firmato il Trattato di Roma il 25 marzo 1957 tra i sei paesi fondatori della Comunita’ Economica Europea (Cee), i capi di Stato e di governo dell’Unione Europea si siano ritrovati, per la prima volta senza il premier britannico, per giurarsi nuovamente reciproca fedelta’ dopo lo shock del referendum inglese; un giuramento sigillato da una “dichiarazione di Roma” che proclama la loro volonta’ di restare uniti e di proseguire nell’integrazione, anche se le concrete modalita’ non vengono precisate. La “dichiarazione di Roma” tuttavia, nota “Libe’ration”, non costituisce ancora un vero cambiamento di rotta per l’Europa: i Ventisette infatti dovranno attendere la fine del periodo elettorale in Francia ed in Germania, sperando nella vittoria dei filo-europei come e’ gia’ successo in Austria ed in Olanda; soltanto allora potranno lanciarsi nel concreto lavoro di rafforzare l’Ue, cioe’ arrivando finalmente a federare la zona euro e dotare l’Europa di quelle politiche sociali e fiscali che per ora le mancano crudelmente oltre a quell’unione militare essenziale davanti al possibile disimpegno dell’alleato statunitense. In attesa, un po’ dappertutto attraverso il continente la societa’ civile comincia a mobilitarsi, brandendo orgogliosamente la bandiera blu con il cerchio di stelle: sia per contestare un governo che attenta all’equilibrio dei poteri come in Polonia; o per reclamare la continuazione delle riforme e la lotta alla corruzione come in Romania. Sabato scorso a Roma la “Marcia per l’Europa” ha riunito oltre 5 mila persone; e persino a Londra diverse decine di migliaia di manifestanti (80 mila secondo gli organizzatori) hanno marciato nelle strade della capitale britannica al grido di “Fermate la Brexit” e “Uniti per l’Europa”.

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Regno Unito, May in Scozia per sostenere le ragioni dell’unita’ del paese

27 mar 11:25 – (Agenzia Nova) – La premier del Regno Unito, Theresa May, riferisce il quotidiano britannico “The Guardian”, incontrera’ oggi in Scozia la prima ministra scozzese, Nicola Sturgeon. Sara’ il primo incontro dalla richiesta di Edimburgo di un secondo referendum sull’indipendenza. La leader di Downing Street, che visitera’ anche le altre nazioni costitutive prima di invocare, mercoledi’, la clausola di uscita dall’Unione Europea, l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, sosterra’ le ragioni dell’integrita’ dello Stato, “una forza inarrestabile” se unita. Prima del colloquio terra’ un discorso nella sede del dipartimento per lo Sviluppo internazionale di East Kilbride in cui ribadira’ le ambizioni globali della Gran Bretagna fuori dall’Ue. La leader scozzese, invece, e’ convinta che la Brexit sia sfavorevole alla Scozia e vorrebbe che la nazione avesse la possibilita’ di decidere del suo futuro prima del completamento del processo di uscita, opzione che il governo centrale ha escluso. I due anni di negoziato definiranno la premiership di May. Un potenziale ostacolo potrebbe arrivare dal Labour, principale partito di opposizione, il cui leader, Jeremy Corbyn, ha dichiarato che si opporra’ al tentativo dell’esecutivo di riscrivere le leggi con la minima interferenza del parlamento: e’ atteso per domani un “libro bianco” sul disegno di legge per abrogare l’European Communities Act del 1972, la legge che ha introdotto il diritto comunitario nell’ordinamento nazionale; dovrebbe essere previsto un ampio ricorso ai cosiddetti “poteri di Enrico VIII”, che consentono al governo di cambiare la legislazione primaria con atti derivati soggetti a uno scrutinio parlamentare limitato o addirittura a nessuno. “Non consegneremo i poteri a questo governo affinche’ scavalchi il parlamento e la democrazia e imponga una serie di diktat su quello che succedera’ in futuro. Verremmo meno al nostro dovere di parlamentari democraticamente eletti se lo facessimo”, ha dichiarato Corbyn.

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Usa, dopo il fiasco sulla sanita’ Trump e i Repubblicani provano a riabilitarsi con la riforma del fisco

27 mar 11:25 – (Agenzia Nova) – Il presidente Usa, Donald Trump, e la leadership repubblicana al Congresso, incassato il naufragio della proposta di riforma sanitaria, iniziano questa settimana una nuova e forse ancor piu’ difficile corsa ad ostacoli: quella verso la prima riforma radicale del Codice fiscale da trent’anni a questa parte. Il fallimento del tentativo di revocare l’Obamacare, pero’, ha reso l’arduo progetto di riforma del fisco promosso dal presidente Trump ancor piu’ difficile. La riforma della sanita’ attualmente in vigore poggia infatti su una rete di imposte e tasse ad hoc che i Repubblicani che restano necessariamente in vigore. E cosi’, la riforma del fisco voluta dal presidente rischia un significativo ridimensionamento, sino a conservare solo il nucleo fondamentale di un taglio della pressione fiscale sulle imprese e sul reddito. Molti, a Washington, ritengono anzi che Trump puntera’ proprio a questo meno ambizioso obiettivo, pur di veder finalmente licenziata dal Congresso una proposta di riforma tra le piu’ significative oggetto della sua campagna elettorale. A legare le mani del presidente e alla maggioranza repubblicana sono i macchinosi regolamenti del Senato: l’unica possibilita’ per quest’ultimi di aggirare le procedure di ostruzionismo della minoranza democratica alla Camera alta, e far passare la riforma col voto della maggioranza semplice dei senatori, e’ di ricorrere a una procedura nota come “budget reconciliation”, che prevede pero’ il divieto per le nuove proposte fiscali di creare nuovo deficit per un periodo di 10 anni. Eliminare l’Affordable Care Act, con i mille miliardi di tasse e spesa pubblica ad esso associati, avrebbe enormemente semplificato il lavoro dei Repubblicani, che ora si trovano invece di fronte ad uno scomodo dilemma: rassegnarsi all’immobilismo o abbandonare, almeno in parte, la rettitudine fiscale professata durante l’amministrazione Obama, per realizzare almeno in parte l’agenda del presidente in carica.

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Usa, dopo il fallimento della riforma sanitaria Trump minaccia i conservatori di aprire ai Democratici

27 mar 11:25 – (Agenzia Nova) – Il Partito repubblicano e il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, hanno incassato una dura sconfitta venerdi’, col ritiro della proposta di riforma della sanita’ che avrebbe dovuto rimpiazzare l’Affordable Care Act (“Obamacare”), e che invece non si e’ spinta oltre il muro dell’opposizione interna al Partito repubblicano, nello specifico quella dei conservatori del “Freedom Caucus”, espressione dei “Tea Party”. La scorsa settimana il presidente Trump si era speso in un vano sforzo negoziale nel tentativo di ricompattare il partito attorno al progetto di riforma; cosi’ facendo, era contravvenuto alle raccomandazioni dei suoi piu’ stretti collaboratori, che lo avevano messo in guardia dall’investire la propria credibilita’ politica in un provvedimento redatto e promosso non dalla Casa Bianca, ma dalla leadership repubblicana alla Camera. Trump ha sfogato la propria insoddisfazione per l’infruttuoso esito delle trattative su Twitter: “I Democratici di Washington sono contentissimi che il Freedom Caucus, con il sostegno del Club For Growth and Heritage, abbiano salvato Planned Parenthood (federazione delle organizzazioni abortiste Usa finanziata dal governo federale, ndr) e l’Obamacare”. Ai Repubblicani – che evidentemente non hanno ancora interiorizzato il passaggio da formazione di opposizione a partito di governo – la Casa Bianca ha inviato ieri un avvertimento: “Questo presidente non sara’ un presidente partigiano”, ha dichiarato il capo dello staff della Casa Bianca, Reince Priebus. “Penso che sia giunto il momento per i nostri di tornare uniti, ma penso anche che sia il momento di prendere a bordo alcuni democratici moderati”: un riferimento ai senatori democratici di Stati conquistati con un ampio margine da Trump lo scorso novembre, e che dovranno affrontare la campagna per la rielezione nel 2018. All’indomani del fallimento della riforma, Trump aveva espresso un concetto per certi versi analogo a quello illustrato da Priebus: l’Affordable Care Act, ha ribadito il presidente, “sta implodendo, e presto esplodera’, e non sara’ un bello spettacolo. I Democratici non vorranno certo vederlo, percio’ ci contatteranno quando saranno pronti, e quando lo saranno lo saremo pure noi”. Il leader della minoranza al Senato, Chuck Shumer, ha effettivamente dichiarato che i Democratici sono pronti a lavorare con l’amministrazione Trump per rimettere mano all’Obamacare, a patto che la Casa Bianca rinunci al proposito di rimpiazzare interamente la legge in vigore con una nuova riforma; ed ha avvertito il presidente che “perdera’ ancora”, se rimarra’ dipendente dalla corrente conservatrice del Partito repubblicano. “Se cambiera’ il suo approccio, potremmo avere una presidenza differente. Ma dovra’ dire chiaro e tondo al Freedom Caucus e agli interessi particolari dei ricchi che controllano la destra e la sua presidenza (…) che non puo’ lavorare per loro. Se lo fara’, daremo certamente uno sguardo alle sue proposte”. L’apertura condizionata di Schumer, pero’, convince poco persino il “New York Times”, testata assai critica nei confronti dell’amministrazione presidenziale in carica. I Democratici, scrive in un editoriale il quotidiano, non hanno alcuna ragione di tendere una mano al presidente che hanno osteggiato in maniera cosi’ intransigente sin dalle elezioni dello scorso anno, specie dopo la sconfitta incassata dalla Casa Bianca la scorsa settimana. “I Democratici sono tornati ottimisti riguardo la possibilita’ di riconquistare seggi alle camere nel 2018”: di fronte a quest’opportunita’, spiega il quotidiano, “gettare un salvagente a Trump in questo momento significherebbe sottrarlo ai primi vortici di una spirale decrescente”. Quanto a Trump, e’ sempre piu’ evidente che lo stesso Partito repubblicano – specie la componente “neoconservatrice”, rappresentata da figure come il senatore John McCain – non ha alcuna intenzione di sostenerlo, se prima non si consegnera’ all’establshment di partito, allontanando dalla Casa Bianca gli esponenti di quel movimento di destra populista che pure e’ stato il vero artefice della vittoria elettorale dello scorso novembre: primo tra tutti, il capo della strategia Steve Bannon.

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Germania, la Cdu ha vinto le elezioni nel Saarland

27 mar 11:25 – (Agenzia Nova) – La Cdu ha incassato un importante successo alle elezioni che si sono tenute nel Saarland. Il partito del Primo ministro Annegret Kramp Karrenbauer ha ottenuto il 40,7 per cento dei consensi, con un aumento di 5,3 punti percentuali rispetto alle precedenti elezioni del 2012. L’Spd si e’ assestato al 29,6 per cento, perdendo circa un punto percentuale. La Linke ha perso 3,2 punti al 12,9 per cento, nonostante la candidatura di Oskar Lafontaine. I Verdi perdono l’un per cento attestandosi sul 4, mentre l’Fdp ne guadagna 2,1 di punti arrivando al 3,3 per cento. L’AfD, che non si era presentato alle precedenti elezioni, ha ottenuto il 6,2 per cento dei consensi. Il Saarland e’ il piu’ piccolo land della Germania, ma il voto era attesissimo come preludio alle elezioni politiche di settembre. A maggio sara’ la volta dello Schleswig-Holstein e del Nord Reno-Vestfalia. Tuttavia il ministro federale della Giustizia, Heiko Maas (Spd) ha detto che queste elezioni “non rappresentano nessun tipo di prova per le elezioni federali”, sottolineando nel contempo che a gennaio l’Spd era data solo al 24 per cento dei consensi. Schulz dal canto suo ha riconosciuto la vittoria della Cdu. Il primo ministro Kramp Karrenbauer e’ considerato molto vicino al cancelliere Angela Merkel. Il capo gruppo dell’Unione presso il Bundestag, Michael Broemer, considera il voto un “ottimo segnale per l’anno delle elezioni nazionali”. Il segretario generale della Cdu, Peter Tauber, lo ritiene invece “un chiaro segnale del fatto che i cittadini vogliono continuita’ sul lavoro svolto dal primo ministro e rifiutano una coalizione rosso-rosso-verde”. Ne’ i Verdi, ne’ l’Fpd saranno rappresentati nel prossimo parlamento.

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Francia, la rivolta in Guyana irrompe sulla campagna presidenziale

27 mar 11:25 – (Agenzia Nova) – Con l’inizio oggi lunedi’ 27 marzo di uno sciopero generale “illimitato”, la rivolta che da alcuni giorni arde in Guyana ha fatto la sua irruzione sulla campagna per le elezioni presidenziali francesi di aprile-maggio: e’ il titolo di apertura del quotidiano “Le Figaro”, che da’ conto della situazione e riferisce delle prese di posizione di tutti i principali candidati. La Guyana non e’ una colonia, bensi’ un Territorio francese d’Oltremare e quindi e’ Francia a tutti gli effetti: politici, legislativi e sociali; tuttavia la sua situazione economica e’ estremamente arretrata rispetto al territorio metropolitano (la Francia propriamente detta, ndr), con una disoccupazione media al 22 per cento ed una criminalita’ in aumento. Da una decina di giorni la popolazione e’ in rivolta, sotto la guida di un “Collettivo per il decollo della Guyana” nato spontaneamente e che riunisce tutte le categorie professionali: blocchi stradali hanno ormai praticamente bloccato tute le attivita’ economiche, pur garantendo gli approvvigionamenti essenziali; a partire da oggi infine e’ stato proclamato appunto uno “sciopero generale illimitato” da tutti i sindacati riuniti nell’Unione dei lavoratori della Guyana (Utg), vicina alla centrale comunista francese Cgt ed alle istanze indipendentiste, che ha rifiutato di incontrare la delegazione inviata sul posto dalla ministra per l’Oltremare Ericka Bareights. E mentre il governo di Parigi tace, a parlare sono diversi candidati presidenziali: l’esponente “indipendente” di centrosinistra Emmanuel Macron ha fatto appello al “ritorno alla ragione ed alla calma; poi si potra’ vedere cosa fare per il futuro” della Guyana. Marine Le Pen invece ha deciso di soffiare sul fuoco della protesta: “I nostri concittadini della Guyana sono uguali a tutti noi, non ne possono piu’!”, a tuonato nel corso di un comizio tenuto a Lille ieri domenica 26; la leader del Front national (Fn) di estrema destra ha aggiunto di “comprendere i blocchi stradali” ed ha denunciato “la massiccia immigrazione e l’insicurezza che essa genera” come causa principale della crisi socio-economica della Guyana. “Solidarieta’ alla Guyana Francese” e’ stata espressa anche dal candidato dell’estrema sinistra, Jean-Luc Me’lenchon, secondo cui quel Territorio d’Oltremare e’ “un simbolo amplificato, come sotto una lente d’ingrandimento, di cio’ che anche i francesi metropolitani devono sopportare”.

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Venezuela, da martedi’ le Americhe si interrogano su come parlare a Maduro

27 mar 11:25 – (Agenzia Nova) – L’Organizzazione degli stati americani (Osa) discutera’ questa settimana il caso del Venezuela e il dossier contenente le eventuali pressioni perche’ il presidente Nicolas Maduro fissi un calendario elettorale e liberi i prigionieri politici. La sessione dedicata a Caracas si terra’ martedi’, riferiscono fonti dell’organismo, ma l’ordine del giorno e’ sufficientemente sfumato – “esaminare la situazione del Venezuela” – perche’ si possa immaginare che sia gia’ arrivato il momento di discutere la proposta del segretario generale Luis Almagro: la sospensione del paese di Nicolas Maduro dall’Osa. Per far passare questa mozione, la misura piu’ severa che l”organismo possa comminare nei confronti di uno stato membro, e’ necessario che almeno 18 dei 34 paesi iscritti concordino con l’idea che in Venezuela “c’e’ una alterazione dell’ordine costituzionale” tale da colpire “gravemente l’ordine democratico”. Una richiesta in tal senso era stata firmata la settimana scorsa da 14 paesi, ma gli altri quattro paesi che hanno convocato la riunione di martedi’ – Bahamas, Barbados, Giamaica e Santa Lucia – non hanno aderito alla petizione su liberta’ dei prigionieri politici e calendario elettorale. Senza contare che l’Uruguay non e’ ancora convinto “che ci siano i presupposti” per applicare la Carta democratica, lo strumento che porta per l’appunto alla sospensione. Un percorso che sarebbe comunque lungo, e che per diventare operativo dovrebbe raccogliere nel tempo l’adesione di altri otto ambasciatori. Ipotesi remota, al momento visto l’appoggio dei paesi dell’Alleanza bolivariana – Ecuador, Bolivia, Nicaragua, El Salvador – e la sostanziale tenuta del blocco dei paesi caraibici, legati a Caracas da oltre un decennio di forniture di petrolio, segnalano le agenzie internazionali. Nel frattempo pero’ le cronache riferiscono di nuovi episodi polemici nell’ordine pubblico interno. La sindaco dell’area metropolitana di Caracas, Helen Fernandez, ha denunciato sabato l’aggressione subita da lei e il suo staff mentre si recava in un quartiere periferico della citta’. Fernandez, esponente dell’opposizione, ha detto di essere stata sequestrata per diverse ore da una ventina di uomini armati, da lei definiti come “un gruppo manovrato da Nicolas Maduro”. Si tratterebbe di una delle formazioni cui vengono imputati altri atti violenti nei confronti degli oppositori al governo, come nel caso della “repressione” delle proteste contro l’esproprio disposto dalle autorita’ nei confronti di alcuni panifici.

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Spagna, i “superpoteri” di Susana Diaz per cercare di riportare i socialisti alla vittoria

27 mar 11:25 – (Agenzia Nova) – Era solo questione di tempo, perche’ tutti sapevano che Susana Diaz, governatrice della Andalusia, avrebbe lanciato la sua candidatura alla guida del partito socialista operaio spagnolo (Psoe). Dinanzi a circa settemila fedelissimi, Diaz ha ufficialmente iscritto il suo nome nella corsa che a giugno la vedra’ opposta a Pedro Sanchez, l’ex segretario che strizza l’occhio all’ala piu’ ribelle dell’elettorato di sinistra, e Patxi Lopez, governatore (“lehendakari”) del paese Basco. Il partito naviga da anni con fatica: ha sostanzialmente perso le ultime tre elezioni generali e Mariano Rajoy, del Partito popolare (Pp), e’ presidente del governo spagnolo dal 2011. A sinistra, il movimento antisistema Podemos erode voti ed energie, e in molti sondaggi e’ gia’ la seconda forza politica nazionale, dopo il Pp. Tutti elementi che sembrano spingere il Psoe verso un appassito orizzonte politico. Ed e’ per questo che la stampa si sofferma sullo squillo di tromba suonato dalla sanguigna Diaz. “La dirigente socialista ha cercato soprattutto di infondere animo e spirito vincitore a chi la votera’ alle primarie”, scrive “El Pais”. Piu’ che la vittoria alle primarie, la governatrice ha messo nel mirino il successo del Psoe nel paese, il ritorno “alle vittorie e ai risultati” dei governi di Felipe Gonzalez e Jose’ Luis Rodriguez Zapatero. Quest’ultimo dice che Diaz “e’ una forza della natura”, ricorda il quotidiano conservatore “el Mundo” in un articolo in cui elenca “i superpoteri di Susana”. La neocandidata “usa se stessa come corrente elettrica. La donna della casta degli idraulici, che vive come pensa e pensa come vive, la dirigente leale al Psoe, la politica impegnata a favore degli sfortunati della terra”. Tutte queste personalita’ assieme “hanno scosso il freddo padiglione” congressuale “e portato molti dei suoi ospiti al bordo delle lacrime”. Ma in prima fila e ad appoggiare la Diaz, sottolinea “Abc” c’e’ l’intero “apparato del partito”: gli ex segretari Gonzalez, Zapatero e Rubalcaba, cinque dei sette segretari regionali e governatori e – soprattutto – “il vero feudo” rappresentato dalla rete dei sindaci. Uno schieramento istituzionale che finisce per portare Pedro Sanchez, lo stesso che due anni fa su un palco a Bologna condivideva jeans e camicia bianca con Matteo Renzi, a cercare consensi sempre piu’ sulla piazza e sempre meno nelle segreterie.

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Barnier, “concordare il ritiro ordinato del Regno Unito prima di negoziare qualsiasi futuro accordo commerciale”

27 mar 11:25 – (Agenzia Nova) – “La decisione del popolo britannico di lasciare l’Ue ci porta, dopo 44 anni di storia condivisa nel progetto europeo, a un bivio. Mercoledi’ Theresa May, premier del Regno Unito, invochera’ l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, dando il via a una serie di negoziati senza precedenti tra il Regno Unito e il resto dell’Ue. In questi negoziati saremo leali, ma fermi nel difendere i nostri interessi come unione di 27 Stati membri”. Inizia cosi’ un articolo di Michel Barnier, capo negoziatore della Commissione europea per la Brexit, pubblicato sul “Financial Times”. Il politico francese premette subito che lo scenario di un esito senza intesa, benche’ possibile, non e’ auspicabile: “Avrebbe gravi conseguenze per i nostri popoli e per le nostre economie. Senza dubbio peggiori per il Regno Unito”. Cita, a questo proposito, alcuni esempi: interruzioni di servizio nel trasporto aereo, file al porto di Dover, problemi nella catena di fornitura. Pertanto, prosegue, “Crediamo che sia nel migliore interesse di entrambe le parti raggiungere un accordo su un ritiro ordinato del Regno Unito dall’Ue. E’ l’unico modo per proteggere adeguatamente i diritti dei cittadini dell’Ue”. “Raggiungere un accordo – ammette Barnier – dipende dall’unita’ dei 27 nel periodo di due anni” previsto per le trattative e “l’unita’ dei 27 sara’ piu’ forte con un dibattito pienamente trasparente e pubblico. Non abbiamo nulla da nascondere”. Quando si comincera’ a trattare, sottolinea il capo negoziatore di Bruxelles, si dovranno affrontare molte “incertezze create dalla decisione della Gran Bretagna di uscire”: innanzitutto “i diritti dei 4,5 milioni di cittadini alle prese con un futuro incerto nel paese che chiamano casa”. “Siamo pronti a discutere il tema a partire dal primo giorno”, assicura. Barnier pensa poi ai beneficiari dei programmi finanziati dal bilancio comunitario, che devono sapere se possano continuare a contare su quei fondi. “Non c’e’ un prezzo da pagare per lasciare l’Ue, ma dobbiamo saldare i conti. I 27 Stati membri onoreranno i loro impegni e ci aspettiamo che il Regno Unito faccia lo stesso”, dichiara. Barnier tocca, quindi, la questione dell’Irlanda del Nord, chiedendo al Regno Unito di “assumersi la responsabilita’ di fare da co-garante per l’Accordo del Venerdi’ Santo, un elemento centrale del processo di pace”. “Se non riusciremo a risolvere queste tre significative incertezze nella fase iniziale, andremo incontro al rischio di fallimento. Mettere le cose nel giusto ordine massimizza le possibilita’ di raggiungere un accordo”, avverte il capo negoziatore della Commissione. “Cio’ significa – precisa – concordare il ritiro ordinato del Regno Unito prima di negoziare qualsiasi futuro accordo commerciale. Prima concorderemo su tali principi, piu’ tempo avremo per discutere della nostra futura partnership”. Tale partnership potrebbe essere “un ambizioso accordo di libero scambio” e “includere la cooperazione in diversi campi, specialmente nella sicurezza e nella difesa”, conclude Barnier, convinto che il Regno Unito e l’Ue continueranno a condividere valori e interessi.

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