Batterie di flusso di redox, una storia americana finita in Cina
Negli Stati Uniti è stato ideato un sistema di accumulo di nuova generazione che avrebbe spianato la strada alla progettazione e la realizzazione di batterie ad alta efficienza energetica, ricaricabili un numero illimitato di volte e quindi sfruttabili per decenni per alimentare una casa intera con tutti i suoi dispositivi elettronici e i consumi elettrici quotidiani.
Una tecnologia innovativa, su cui hanno lavorato per lungo tempo (a partire dal 2006) ingegneri e ricercatori americani, prima nel Pacific Northwest National Laboratory e poi alla UniEnergy Technologies di Washington, grazie ad un investimento governativo di circa 15 milioni di dollari.
Si tratta di batterie di flusso di redox al vanadio, composte da due unità di elettroliti liquidi, una caricata positivamente, l’altra negativamente, successivamente pompati verso un separatore a membrana inserito tra gli elettrodi. Tale flusso genera una reazione elettrochimica reversibile, tramite cui è possibile stoccare e restituire energia elettrica per un numero illimitato di volte.
Una scoperta che avrebbe consentito di stoccare in batteria grandi quantità di energia elettrica generata ad esempio da impianti solari, senza processi degenerativi che generalmente si presentano nelle batterie che utilizziamo oggi ad esempio per smartphone, laptop o anche per le nostre automobili.
Secondo le stime dei ricercatori, infatti, questo sistema poteva ricaricarsi in maniera efficiente e alla massima capacità per almeno 30 anni.
L’indagine sull’operato del DoE
Una storia americana di grande successo, che però non è mai iniziata, secondo quanto riportato in un articolo pubblicato da Laura Sullivan su npr.org. Di fatti, il progetto delle nuove batterie al vanadio, dopo le prime sperimentazioni promettenti, è passato di mano, anche in Europa, fino ad arrivare a Dalian, in Cina, dove ora ha già offerto dei risultati eccezionali in termini di efficienza energetica.
Secondo un’indagine condotta dalla stessa Npr e dalla Northwest News Network, è stato proprio il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti (DoE) ad autorizzare il trasferimento di licenza in Cina, alla Dalian Rongke Power Co, che dal 2016 porta avanti la sperimentazione (investendo circa 300 milioni di dollari nella prima fase, durata crica sei anni).
Proprio nei giorni scorsi, presso la città di Dalian, nel Nord Est della Cina, è stato dato il via ad un nuovo test per uno dei più grandi impianti di accumulo basato su flusso redox al vanadio, in grado di raggiungere i 100 MW di potenza e i 400 MW di capacità, con l’obiettivo di raddoppiare queste prestazioni entro pochi anni.
Scopo dell’indagine è capire se il DoE abbia o meno violato i termini di legge nella concessione della licenza e se abbia danneggiato il mercato nazionale, con ricadute negative sull’occupazione (visto che in America tutti gli inquilini della Casa Bianca, prima Donald Trump, poi Joe Biden, hanno promesso di riportare la produzione in patria così da mantenere/creare posti di lavoro).
Intanto, è emerso che diverse società, tra cui la Forever Energy, hanno tentato per più di un anno di ottenere quella licenza per produrre direttamente negli Stati Uniti, ma inutilmente.
Violati gli interessi nazionali
“La decisione del DoE è sbalorditiva – ha dichiarato Joanne Skievaski, CFO di Forever Energy – questa è una tecnologia sviluppata grazie a milioni di dollari dei contribuenti, inventata in un laboratorio nazionale e ora passata alla Cina. Dire che è frustrante è un eufemismo”.
A quanto pare, il progetto inziale portato avanti dalla UniEnergy Technologies non trovava adeguati finanziamenti per passare alla fase successiva. È stata la Cina ha provvedere, proprio grazie alla Dalian Rongke Power Co., che in questo modo ha ottenuto prima una sublicenza a produrre in casa e poi la licenza completa.
Secondo Npr, infatti, la legge afferma che qualsiasi trasferimento di una licenza ottenuta con fondi pubblici richiede l’approvazione del governo degli Stati Uniti. Questo per fare in modo che la produzione non si sposti all’estero.
Una norma tesa ad impedire che gli Stati Uniti perdessero ulteriori posti di lavoro in aree strategiche di interesse nazionale, come i pannelli solari, i droni e le apparecchiature per le telecomunicazioni, come accaduto negli ultimi 10-15 anni.