Anzitutto un piano di investimenti pubblici
Sull’urgenza di varare un vasto programma di investimenti pubblici per rilanciare l’economia italiana si sono pronunciati recentemente a più riprese sia il ministro dell’Economia Giovanni Tria sia il ministro degli Affari europei Paolo Savona. Per mettere in sicurezza le infrastrutture, ma anche per renderle adeguate sotto il profilo della qualità e modernità, è necessario un robusto programma di nuovi investimenti. Questi rappresentano, al tempo stesso, una strategia per far crescere il PIL e l’occupazione. Tria ha affermato che occorre anzitutto un ribilanciamento della spesa pubblica che privilegi gli investimenti rispetto alla spesa corrente, ma non ha esitato a esprimersi in modo favorevole nei confronti della possibilità di ricorrere al finanziamento in deficit.
Su questo punto gli ha fatto eco Savona che ha parlato di un piano di investimenti pubblici di 50 miliardi in grado di far crescere nel 2019 il PIL oltre le attuali previsioni al ribasso. E questo programma può essere finanziato anche in deficit perché l’aumento del PIL che ne deriverebbe sarebbe di gran lunga maggiore dell’aumento del debito. Su questa manovra abbiamo già manifestato il nostro apprezzamento (cfr. su questo giornale:“L’efficienza degli investimenti pubblici”, 23 luglio), perché riteniamo che il rilancio degli investimenti e il sostegno dell’innovazione siano due condizioni determinanti per la ripresa economica e il rilancio dell’occupazione.
Il Governo del cambiamento deve però fare i conti con l’Europa e i mercati. Bruxelles deve condividere tale strategia e concedere all’Italia la necessaria flessibilità; quanto ai mercati, essi potrebbero apprezzare lo sforzo del Governo di promuovere la crescita anche se le condizioni di contesto per il nostro debito pubblico cambieranno con la fine del Qe all’inizio del 2019, a meno che la Bce non ci ripensi. Ma per convincere l’Europa e i mercati occorre che la nostra politica economica e finanziaria mostri tutte le necessarie coerenze. Sono infatti in ballo altre misure del Governo che incidono sui conti pubblici. Ci riferiamo a una prima attuazione del reddito di cittadinanza e della flat tax. Il ministro Tria si trova così ad affrontare un doppio problema: l’equilibrio tra entrate e uscite e il contenimento del costo del debito. La visita di Tria in Cina in questi giorni si ripromette di promuovere le relazioni commerciali dell’Italia con tale paese, anche per attrarre investimenti cinesi nelle imprese italiane, soprattutto a favore dei comparti innovativi della nostra economia. Il ruolo dei capitali esteri è utile per sostenere i nostri nuovi investimenti e una strategia di rafforzamento delle relazioni internazionali è di grande importanza anche per il nostro debito pubblico collocabile all’estero. Non si vede perché non si debba fare marketing finanziario anche da tale punto di vista.
Un piano nazionale per la crescita
A questo punto riteniamo che il Governo del cambiamento debba darsi un piano complessivo e comunicarlo con chiarezza. Non può procedere con approcci estemporanei, parziali senza una visione coerente di assieme. Ciò soprattutto per dare dimostrazione – nei confronti dell’Europa e dei mercati – che gli indirizzi indicati nel “contratto di governo” possono essere tradotti in un vero piano strategico. Un piano coerente nella sua articolazione, con precisi obiettivi e risultati attesi. Questo sarebbe un vero cambiamento perché consentirebbe di passare dalla gestione delle emergenze alla pianificazione delle soluzioni. Che un piano strategico possa essere approntato sarebbe già una grande novità; ma ciò che conta di più è senza dubbio la sua fattibilità. Difatti è in sede realizzativa che si sono sempre riscontrati nel nostro paese i maggiori ostacoli. Il settore pubblico, a livello centrale e locale, ha mostrato negli ultimi decenni, un progressivo deterioramento della sua capacità sia di progettazione sia di attuazione dei progetti di investimento. Le cause sono numerose e note, come l’eccesso di burocratizzazione, la sovrapposizione di competenze, il mancato utilizzo di procedure di valutazione basate sull’analisi costi-benefici, l’inadeguatezza delle strutture coinvolte nelle decisioni, il mancato rispetto dei tempi di attuazione per le continue varianti apportate ai progetti, la mancanza di progetti adeguatamente formalizzati e supportati. Questi fattori sono le vere cause del declino degli investimenti pubblici e non perché i finanziamenti sono mancati. Basti pensare ai fondi europei. L’Italia è tra i peggiori utilizzatori nonostante ne abbia bisogno per gli investimenti che finora non ha fatto.
Poiché su questa penosa situazione non si è mai provveduto in modo concreto per risolverla, Il Governo del cambiamento cosa intende fare al riguardo? In effetti, il viceministro dell’Economia Massimo Garavaglia ha indicato alcune misure che sono certamente opportune tra cui: dare maggiore spazio alle decisioni degli enti locali (comuni, province e regioni) nella scelta degli investimenti locali dato che al centro non si conoscono tutte le esigenze territoriali; semplificare il codice degli appalti, ancora eccessivamente burocratico soprattutto nei confronti delle pmi. Ma resta da capire anche se e come il Governo intenda intervenire sul problema del miglioramento della qualità dei progetti. Qui manca spesso la collaborazione con le università che possono dare un importante contributo ma manca anche un attrezzato settore di società di progettazione che in Italia andrebbero promosse. Inoltre occorre puntare maggiormente sulla collaborazione tra pubblico e privato e anche il sistema bancario deve essere maggiormente coinvolto nella fase progettuale per evitare che in sede di finanziamento i progetti sia giudicati non sostenibili. Pertanto, il Governo dovrebbe promuovere un maggior spirito di squadra tra tutti gli attori dello sviluppo. Ciò significa coinvolgere le grandi imprese infrastrutturali, i centri di ricerca per l’innovazione, le università, le banche e le amministrazioni locali. Queste negli ultimi anni sono state emarginate dal neocentralismo del Governo Renzi: al contrario, esse vanno aiutate a crescere sul piano dell’efficienza e dell’imprenditorialità pubblica territoriale così come vanno sostenuti i progetti che provengono dal basso e a cui partecipano soprattutto le pmi.
Ma sempre a proposito del rilancio degli investimenti pubblici, vi sono altri interrogativi che riguardano cosa intende fare il Governo del cambiamento per ridurre il divario tra Nord e Sud. E’ infatti soprattutto il Sud che si trova a dover maggiormente ammodernare le proprie infrastrutture, a innovare e rendere più competitivi i propri sistemi produttivi, nonché a dover risollevare le sue numerose aree depresse. Senza dimenticare che lo sviluppo al Sud richiede soprattutto di contrastare (e questa è la vera sfida) il clientelismo, l’assistenzialismo e l’illegalità diffusa.
Una strategia per il Sud
Il Ceo di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, in una recente intervista al Messaggero (“Il nostro piano per l’Italia tra debito e Mezzogiorno”, 2 agosto), ha esposto delle idee molto interessanti sul ruolo che il suo gruppo intende svolgere per lo sviluppo del Sud con uno specifico programma finanziario a favore delle imprese meridionali. Se Intesa Sanpaolo sarà seguito da altri gruppi bancari in tale direzione, non si vede perché questo approccio non possa essere attuato anche dal Governo con la definizione di un piano per il Sud. A maggior ragione se tale piano può aumentare l’interesse dei capitali privati e delle banche a finanziare le iniziative e i progetti di sviluppo dell’economia meridionale.
Nel “contratto di governo” non vengono indicate specifiche misure per il Mezzogiorno, ma si afferma che (art.25) “le scelte politiche previste (con particolare riferimento a sostegno al reddito, pensioni, investimenti, ambiente e tutela dei livelli occupazionali) sono orientate dalla convinzione verso uno sviluppo economico omogeneo per il Paese, pur tenendo conto delle differenti esigenze territoriali con l’obiettivo di colmare il gap tra Nord e Sud”. Ma se si riconosce che vi sono “differenti esigenze”, va da sé che un piano e una strategia per il Sud sono necessari.
In realtà, l’intervento dello Stato al Sud è più che urgente. Lo testimoniano le gravi carenze infrastrutturali che nella gran parte delle aree meridionali si sono progressivamente acuite per il forte calo nell’ultimo decennio degli investimenti pubblici. Sono di conseguenza aumentate le diseconomie esterne che penalizzano sul piano competitivo le imprese meridionali, soprattutto quelle piccole e medie. Come ha rilevato il recente rapporto della Svimez, il Sud, nonostante le sue grandi difficoltà, ha conseguito negli ultimi anni miglioramenti del tasso di crescita grazie all’iniziativa privata che però incontra dei limiti. Di conseguenza un piano di investimenti pubblici per lo sviluppo per il Sud, se ben impostato e credibile, aumenta le opportunità per i capitali privati, compresi quelli esteri, e induce le banche a concedere maggiore credito perché il contesto economico si rafforza. Un piano per il Sud dovrebbe riunire in un’azione concertata i più grandi gruppi bancari, le banche del territorio oltre ad altri intermediari, tra cui la Cassa Depositi e Prestiti quale “banca di sviluppo” nazionale. Un piano di sviluppo organizzato sulla base della collaborazione tra pubblico e privato sarebbe anche in grado di indurre a un migliore impiego dei fondi comunitari. In tal modo troverebbe un’adeguata collocazione, come propone il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, la costituzione di un fondo europeo per il Sud che raccolga tutti i fondi comunitari non utilizzati nelle regioni meridionali (si parla di 20 miliardi euro).
Il Governo del cambiamento deve definire una strategia di sviluppo del Sud anche perché si trova a dover decidere quali orientamenti assumere nei confronti delle Zone Economiche Speciali (ZES) introdotte nel febbraio 2018 dal Governo Gentiloni. E’ previsto che queste aree possano beneficiare di incentivi e agevolazioni alle imprese di tipo fiscale e finanziario e semplificazioni amministrative. Le ZES riguardano le Regioni meridionali in cui vi sono aree portuali strategicamente rilevanti che le stesse Regioni si propongono di potenziare con specifici piani di sviluppo che esse devono presentare al Governo.
Vi sono quindi molte buone ragioni per le quali il Governo del cambiamento deve definire un piano per il Sud. Anche perché come può pensare di investire 17 miliardi di euro nel reddito di cittadinanza senza creare al tempo stesso opportunità di occupazione per i giovani del Sud; giovani che devono diventare al più presto parte attiva del processo di sviluppo dei propri territori?
Quale ruolo per Invitalia?
A questo punto appare necessario richiamare un ulteriore aspetto sul quale il Governo del cambiamento, a nostro avviso, deve intervenire. Ci riferiamo alle strutture pubbliche preposte alla selezione e controllo dei progetti infrastrutturali. Non chiamiamo necessariamente in causa il ministro del Sud, senza portafoglio, il cui ruolo andrebbe in ogni caso meglio chiarito. Ci riferiamo piuttosto alle agenzie pubbliche come l’Agenzia della coesione territoriale e Invitalia. Questi organismi hanno compiti di valutazione dei progetti soprattutto al fine dell’uso dei fondi comunitari. Essi svolgono un ruolo importante perché si occupano di valutare anche le politiche e i progetti regionali. E Invitalia ha inoltre un ruolo di promozione delle iniziative economiche grazie anche alla Banca del Mezzogiorno di cui ha il diretto controllo. Quale agenzia per lo sviluppo, questa società agisce su mandato del Governo per favorire lo sviluppo di nuove imprese e rafforzarne la competitività. Al tempo stesso, all’ Agenzia per la coesione territoriale è attribuito il ruolo di valutazione e monitoraggio dei risultati dei progetti di sviluppo nelle singole ZES.
A questo punto è evidente che vi sono anzitutto problemi di coordinamento anche per evitare inutili sovrapposizioni. Se l’obiettivo è quello di razionalizzare e di massimizzare il contributo dei vari progetti di investimento, la selezione delle iniziative richiede una visione coordinata che non riguarda solo i progetti più grandi ma anche quelli territoriali. Il Ministero delle Infrastrutture ricopre un ruolo centrale nella definizione e gestione di un piano di sviluppo del Sud, di cui stiamo parlando, ma una visione complessiva richiede una “regia unitaria” che non pare essere svolta almeno fino ad ora da nessuna delle strutture che abbiamo appena ricordato né tanto meno dal ministro per il Sud.
Ma vi è un secondo aspetto, che riteniamo ancora più rilevante. Esso riguarda l’efficienza di tali strutture non solo nella valutazione e selezione dei progetti ma anche nella proposizione e promozione di nuove iniziative di sviluppo. Che esse siano poco efficienti sotto questi punti di vista è sotto gli occhi di tutti. Se i fondi comunitari messi a disposizione del Sud non vengono utilizzati per la mancanza di progetti e se i progetti presentati sono giudicati non sostenibili, cosa hanno fatto finora le suddette strutture per contrastare tale situazione? Quale assistenza hanno fornito ai privati e alle amministrazioni territoriali per migliorare la progettazione? Quali azioni proattive hanno attuato? Hanno mai redatto un piano di sviluppo per il Sud; cercato una visione d’assieme; fatto proposte? Anche per questi motivi organizzativi, è necessario che il Governo del cambiamento intervenga al più presto perché le strategie di sviluppo per il Sud hanno bisogno non solo di validi progetti ma anche di una maggiore capacità di implementazione.