Abbiamo fatto appena in tempo a riflettere sulla “cittadinanza digitale”, nel precedente pezzo pubblicato in questa rubrica, che subito otteniamo i primi riscontri per capire quanto ancora sia immatura. E non solamente su temi “avanzati” ma, purtroppo, anche su questioni di semplice educazione civica.
Mi riferisco al caso che coinvolge il gruppo Intesa San Paolo, in relazione alla diffusione di un video, che doveva essere ad uso interno e che invece in pochi giorni è diventato virale.
La direttrice della filiale di Castiglione delle Stiviere decide di partecipare ad un contest interno promosso dal marketing, coinvolgendo tutti i dipendenti della filiale (ad eccezione di uno, assente per malattia). Il video, ancora non è chiaro come, finisce in rete. Ad oggi ha raccolto milioni di condivisioni.
Non mi cimenterò nella descrizione dei mille dettagli che lo rendono un prodotto visibilmente “casereccio”. Ma non è certo difficile immaginare che non fosse propriamente in linea con le strategie ufficiali del gruppo, come poi effettivamente è stato commentato.
La questione riguarda certamente molteplici aspetti della sicurezza: si è palesemente verificato un incidente che ha coinvolto la reputazione del gruppo e la reputazione personale dei singoli dipendenti. Ma la macchina social, che si alimenta ad odio puro, non tarda a mettersi in moto. Piovono commenti che ridicolizzano la direttrice e a poco valgono le difese di alcuni personaggi televisivi e della stampa. Insomma la rete ha già giudicato, tra un’emoticon sghignazzante e l’altra, prima ancora di riflettere.
Se invece volessimo cercare di ragionare in modo non dico professionale, da esperti della sicurezza, ma per lo meno con un po’ di serietà, rifletteremmo su quattro aspetti principali.
Il primo: qualsiasi sia il contenuto riversato in rete, bisogna fare molta attenzione a commentarlo con leggerezza, specie se coinvolge la reputazione delle persone. Perché le parole sono coltelli, possono fare molto male. E purtroppo non ci mancano, anche recenti, alcuni esempi drammatici che collegano la folle corsa della rete al giudizio con gesti estremi; persino il suicidio.
Il secondo. Quel video com’è finito in rete? E’ stato rubato? E’ stato postato con leggerezza da qualcuno degli impiegati? Dato di fatto è che, conoscendo quanto possano essere stringenti le policy interne delle banche, dubito che non esistessero specifiche restrizioni al riguardo.
Il terzo. Le riprese, probabilmente registrate con uno smartphone (personale o aziendale?), sono state protette secondo i requisiti minimi di sicurezza per i dispositivi mobili definiti dal gruppo?
Il Quarto. Siamo proprio certi che, come a volte succede, il marketing non si sia mosso rapidamente ma senza l’appoggio della compliance e tutta questa faccenda si insinui tra una maglia e l’altra delle policy, con qualche istruzione veloce, magari data a voce?
E’ molto probabile che rimarremo senza la maggior parte di queste risposte. Ma per lo meno lasciamo in pace la direttrice, lasciamola libera da inutili ulteriori commenti. Perché un detto popolare potrebbe risultare sin troppo veritiero: “meglio tacere e far finta di essere stupidi, piuttosto che parlare e togliere ogni dubbio”.